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Santa Maria Goretti, la martire che promise il Paradiso al suo assassino

NEL SEGNO DELLA POVERTÀ

Santa Maria Goretti nacque a Corinaldo il 16 ottobre 1890 in provincia di Ancona, vicino a Senigallia, da Luigi e Assunta Carlini. Prima di lei era nato Tonino, che morì pochi mesi dopo la nascita, poi Angelo; dopo di lei nacquero Mariano, Alessandro, Ersilia e Teresa alle Ferriere, tre mesi prima della morte del padre. Il 17 ottobre venne battezzata, entro le 24 ore dalla nascita, nella chiesa di San Francesco con il nome di Maria e Teresa. La madre si chiamava Assunta Carlini, era orfana, fu adottata da due coniugi senza prole, più poveri di lei che era sola al mondo… In compenso quei genitori adottivi erano rigorosi in fatto di morale e la salvaguardavano dai pericoli del mondo e dalla vita libera, abituandola alle privazioni e ai dolori della vita. Purtroppo non fu mandata neanche a scuola. Le verità del catechismo e le preghiere le imparò a furia di ascoltarle. Fu questa donna che Luigi Goretti conobbe ed amò. Egli era per natura un uomo mite e di cuore buono. Non poteva patire di vederla così; tanto più che notava in lei tante belle qualità di vita pratica e laboriosa, una rettitudine ed una fortezza d’animo a tutta prova.

Maria ricevette l’educazione in famiglia dal padre e specialmente dalla madre, educazione che impartivano in modo uguale agli altri figli perchè crescessero buoni cristiani. La madre insegnava ai piccoli le orazioni: il Pater, l’Ave Maria, il Credo e i primi elementi della vita cristiana. Ella ricordava: «In special modo, Maria, che era la più grande delle figliole, approfittava dei miei insegnamenti e a sua volta si faceva maestra dei fratellini. Finché fummo a Corinaldo, ella fu sempre buona, ma non notai nulla di straordinario nella sua condotta». Mons. T. Signori, Arciprete di Nettuno, scrisse che secondo la testimonianza della mamma: «[Maria] aveva un’indole buona, docile arrendevole; quindi il terreno era molto ben disposto perchè vi lavorasse la divina grazia, fino a spingerla all’eroismo nei primi albori della vita».

La casa di Corinaldo, in località Pregiagna, in cui abitavano non era molto grande, essi erano con la famiglia del fratello del papà, il terreno era poco e così cominciarono a pensare di emigrare, come facevano molti marchigiani. “Dio sempre provvede” disse allora Luigi. Assunta approvò quel sentimento di fede che era anche il suo. Prima di partire fecero cresimare Angelo di 8 anni e Maria di 6 anni perché intuivano di andare incontro all’ignoto e dubitavano di trovare, nella campagna romana, l’opportunità di far cresimare all’età giusta i due bambini maggiori. D’altra parte, a Corinaldo, lì a due passi, il Vescovo amministrava la Cresima. I genitori fecero imparare loro l’essenziale. Mamma Assunta racconta che Maria aveva tanta soggezione del sacerdote che le rivolgeva le domande che non rispondeva. Allora la madre dell’Arciprete la prese in braccio e in questo modo rispose a tutte le piccole domande e recitò le sue preghiere, così il giorno di San Francesco, 4 ottobre 1896, la piccola Maria ricevette il sacramento della Cresima da Mons. Boschi, Vescovo di Senigallia. Era quanto le occorreva per la futura lotta contro il peccato e il demonio.

EMIGRANTI

Il 12 dicembre 1896, dunque, la famiglia Goretti emigrò a Colle Gianturco (FR), vicino a Paliano, nella campagna romana, nell’azienda del senatore Scelsi. Là Giovanni e Alessandro Serenelli, padre e figlio, anch’essi marchigiani, vennero ad abitare con loro perché anche essi erano soli e poveri. Infatti il senatore Scelsi li consigliò di associarsi con un’altra famiglia dicendo ai Serenelli: «Voi non potete fare da soli, perchè non associarsi coi Goretti?». Fatto chiamare Luigi Goretti gli espose il caso. Fu così che i Serenelli presero a convivere con la famiglia Goretti.

Di Maria, mamma Assunta ricorda l’ubbidienza esatta; fin d’allora cominciò ad essere d’aiuto nella cura della casa e dei fratelli minori. L’animo buono della bambina fu notato anche da altri, tra i quali Angela Terenzi che aveva la stessa età di Maria. Costei, incontrandola, cercò più volte di avvicinarla e di parlarle come fanno le bambine di quell’età. Maria rallentava un istante, la sogguardava e seria si allontanava, quasi avesse timore. Noi preferiamo pensare al carattere riservato della fanciulla e alla sua premura di ubbidire alla mamma, che sempre le raccomandava di non attardarsi lungo il cammino. Inoltre a casa c’era Ersilia, nata da pochi mesi. Maria era incaricata della sua custodia e perciò cercava di tornare presto, camminando svelta, con quei suoi piedini scalzi.

Il lavoro a Colle Gianturco venne interrotto bruscamente perchè Giovanni Serenelli litigò col figlio del senatore Scelsi, il “sor Peppino”, il quale licenziò sui due piedi il Serenelli ed i suoi soci, cioè la famiglia Goretti. Era febbraio e che cosa dovevano fare così fuori stagione? Lì per lì non videro altra soluzione che quella di seguire tanti altri marchigiani che scendevano nelle Paludi Pontine, dove si richiedeva mano d’opera senza fine. D’altronde anche i loro amici Cimarelli avevano fatta quella strada.

ALLE PALUDI PONTINE

Nel mese di febbraio 1899, la famiglia Goretti, seguita dai due Serenelli, si trasferì a Le Ferriere di Conca, nelle Paludi Pontine, dove il conte Mazzoleni prometteva pane e benessere. La casa, chiamata Cascina Antica, era ampia, spaziosa e in muratura. Così le due famiglie abitarono nello stesso casolare. Il terreno era fertile, il clima mite, ma vi era un’alta mortalità causata dalla malaria. Le speranze di un futuro migliore diventavano finalmente concrete. Dopo tanto lavoro il raccolto fu buono, i Goretti erano contenti e nel frattempo era nata Teresa. Però il 6 maggio 1900 Luigi Goretti, di 41 anni, si ammalò, fu chiamato il medico e la diagnosi fu terribile: malaria, polmonite e meningite. Morì lasciando tutto il peso del mantenimento della famiglia, formata da sei figli, sulle spalle di mamma Assunta. Giova ricordare che, ad onta dell’ignoranza, delle superstizioni e dei pregiudizi che regnavano sovrani tra la gente delle Paludi, Luigi Goretti fu assistito da un buon medico e ricevette in punto di morte tutti i conforti religiosi.

Fu in questa circostanza che Maria, di appena dieci anni, rivelò un contegno ed un’assennatezza, così superiore alla sua età, da destare l’ammirazione di tutti. Infatti le prime parole che conosciamo di lei vennero pronunciate in quel momento: «Mamma, non ti abbattere, io penserò alle faccende di casa, tu prenderai il posto di papà in campagna. Vedrai, Dio non ci abbandonerà». Disse questo in lacrime, in quell’occasione di lutto che turbò profondamente l’animo di mamma Assunta e mise in scompiglio tutta la sua famiglia. Ricordava così le espressioni udite dal padre che era un uomo pieno di fede e che seppe trasmetterla ai figli. Egli era stato un uomo laborioso, un marito esemplare ed un padre premuroso. La sera soleva radunare i suoi figli per la recita del santo Rosario, mentre la moglie finiva di preparare la cena. A Corinaldo e poi a Colle Gianturco, come in seguito alle Ferriere, i coniugi Goretti si erano sempre preoccupati d’impartire un’educazione cristiana ai loro figli, secondo le direttive tradizionali che essi stessi avevano appreso in seno alle loro famiglie. Essi si recavano alla Messa domenicale, davano testimonianza di vita onesta e laboriosa e si distinsero nettamente dagli altri coloni della Palude, diversificandosi, per così dire, per un più elevato e dignitoso comportamento morale.

Le chiese di Corinaldo, di San Procolo a Paliano, di Conca, di Campomorto e di Nettuno li videro assidui alla Messa e ai sacramenti. In quindici anni di vita matrimoniale quei coniugi ebbero sette figli e aiutarono i sei sopravvissuti a crescere tutti timorati di Dio e fiduciosi nella divina Provvidenza. Possiamo notare che mentre oggi in Italia, secondo le statistiche, vi è la natalità più bassa del mondo, in quella famiglia vi era una grande fede e un abbandono fiducioso nella Provvidenza. «Chi accoglie uno di questi piccoli in mio nome, accoglie me», disse un giorno Gesù (Mt 18, 5), questa generosità è una promessa di una grande ricompensa eterna. Nello stesso senso Pio XII diceva agli sposi: «Ricordatevi, figlioli miei, che in cielo i vostri figli saranno la vostra corona».

LA SANTITÀ DI MARIA

Il martirio della santa non fu effetto dell’abiezione o dell’ignoranza, ma della fede e della educazione cristiana ricevuta in famiglia. Il difficile ambiente della Palude contribuì negli ultimi tre anni della sua vita, a rendere più matura la sua personalità di fanciulla cristiana, che si era già andata formando nella natia Corinaldo e poi nella contrada di Colle Gianturco. Se infinite furono le privazioni e le angustie alle quali dovettero far fronte, bisogna dire, col Manzoni, che, fortunatamente per loro, Dio non tenta mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più grande e duratura!

Quando la piccola Maria giunse con la famiglia alle Ferriere aveva già quasi nove anni e possedeva un bagaglio di educazione e conoscenze religiose sufficienti per farle capire la sostanziale differenza tra il bene e il male e il dovere cristiano di scegliere sempre il bene, evitando il male. La fanciulla era in grado di formulare i suoi buoni propositi. Poi la grazia di Dio fece il resto. Questo si rileva dalla lettura attenta dei processi canonici, compilati con scrupolosità per provare la sua santità di vita ed il suo martirio.

Riguardo alla famiglia Goretti non fa meraviglia che la piccola Maria crescesse così buona, perché i suoi genitori ne davano l’esempio ed ella diventò presto matura seguendo le loro orme. La povera mamma Assunta era una donna del popolo, analfabeta, ma dotata di buon senso. «Maria era desiderosa – racconta la madre – di imparare le cose della fede e più volte mi ha chiesto di parlare in proposito. Non ricordo sia mancata alla Santa Messa e pur non sapendo leggere si era imparata a memoria l’Ave Maria, il Padre Nostro e le altre preghiere e soprattutto il Santo Rosario che le era indispensabile come l’aria che respirava». «In chiesa – ricorda Teresa Cimarelli – era molto devota e raccolta, si vedeva che era una figliola tirata su per il Signore».

Una testimone che gestiva la dispensa di Conca disse: «La fanciulla non dava confidenza a nessuno, non si associava per strada ad altre ragazze; nessuno poté mai farle un appunto, ma tutti invidiavano sua madre perché aveva una figlia così buona! ».

Mamma Assunta poi ci assicura che, dopo la morte del povero Luigi: «Marietta era quella che reggeva la casa», specialmente quando ella si trovava a lavorare nei campi.

La fanciulla non litigava mai coi fratelli, se riceveva qualche dono di frutta o altro era lieta di distribuirlo ai fratellini e alla mamma. Per sé riservava i resti. «Maria – diceva mamma Assunta – nel mangiare contentava prima gli altri e poi se stessa e non assaggiava nulla se prima non aveva fatto la parte a me ed ai fratellini. E se le sembrava che io avessi preso poco, insisteva perché prendessi dell’altro». «Prendete mamma: io sono più piccola di voi!»

Tale era la frase che ripeteva ogni volta che la mamma stanca ed affaticata, ma preoccupata dei figli piccoli, si privava a tavola anche del necessario.

Con tutti era sincera e leale; non fu mai intesa dire bugie. Raggiunse l’età dell’adolescenza senza aver mai dato motivo a critiche e lagnanze a suo riguardo.

LA PRIMA COMUNIONE

Il pensiero di Maria in quel tempo andava irresistibilmente orientandosi verso il Tabernacolo. Era l’anno 1900, da qualche mese il padre era morto in seguito alla malaria; Maria aveva 10 anni e portava il peso del lavoro in casa; in quei tempi l’età media per accostarsi alla Santa Comunione per la prima volta si aggirava sui 12 anni e nessuno a quell’epoca avrebbe immaginato che san Pio X, nel 1910, avrebbe pubblicato il decreto Quam Singularis che avrebbe permesso ai piccoli di ricevere la Santa Eucaristia a partire dall’età di ragione, cioè verso i 7 anni. Un giorno ella disse alla mamma: «Mamma quando faccio la Comunione io?».

La madre rispose: «Cuore mio, come la puoi fare se non sai bene la dottrina?… Non sai leggere, non ci sono soldi per farti il vestito, le scarpe, il velo; non hai un minuto di tempo libero; c’è sempre da fare…». «Mamma cara, ma così non la faccio mai! ».

«Ma che ci può fare la sventurata mamma tua, cuore mio? Tocca di vedervi venire su come bestioline».

«Ebbene, mamma Dio provvederà. A Conca c’è la sora Elvira che sa leggere. Io vi prometto di sbrigar prima tutte le faccende di casa, ed il tempo libero voi me lo lasciate per andare a Conca ad imparare la dottrina». Maria era una bambina tenace e volenterosa, il suo impegno di responsabilità in casa lo portava avanti con cura e precisione, si occupava bene anche dei fratellini e così per anticipare il giorno della sua Prima Comunione imparò tutto a memoria. Ella era così attenta a quello che apprendeva che a sera in casa, rivelando notevoli capacità comunicative, insegnava ai fratellini, ciò che aveva imparato. Una volta, dopo aver assistito alla funzione del Venerdì Santo nel Santuario di Nettuno, ripeté a casa per filo e segno l’intera omelia dimostrando così la sua grande memoria. Durante quel tempo Maria non solo apprendeva le nozioni di catechismo ma andava diventando sempre più buona. Il pensiero di ricevere Gesù la spronava ad ornarsi delle più belle virtù. Era sempre più raccolta, più devota, più affettuosa verso la mamma e i fratellini, la prima ad accorrere in chiesa e l’ultima ad uscirne.

Maria non aveva i dodici anni richiesti così mamma Assunta per togliersi ogni scrupolo, la vigilia della Prima Comunione, prese la bambina e la portò con sé a Nettuno dall’Arciprete Temistocle Signori. A lui espose la cosa e lo pregò di nuovo di esaminare la figliola. L’Arciprete esaminò attentamente la fanciulla e tutto contento disse alla mamma: «Voi affidatela alla Madonna e mettetela sotto il suo manto e poi non abbiate paura». Poi la confessò per prepararla bene a ricevere Gesù per la prima volta nel suo cuore.

Il 16 giugno 1901 Maria ricevette la Prima Comunione nella chiesa di Conca, oggi Borgo Montello. Prima di presentarsi in chiesa in quell’importante giorno si avvicinò alla mamma e le chiese perdono di ogni mancanza che avesse potuto commettere, poi per suggerimento della mamma chiese perdono anche ai Serenelli, padre e figlio, dimostrando così che il catechismo lo aveva imparato non solo a memoria. Il fratello Angelo, quel mattino, non ci voleva andare perché non aveva le scarpe nuove. Allora Maria si avvicinò per convincerlo e gli disse: «Ma Gesù non guarda mica le scarpe… guarda il cuore». In chiesa la mamma e le altre persone notarono in lei una compostezza «ad occhi bassi» tutta straordinaria. Si confessò di nuovo al sacerdote passionista che era venuto per la cerimonia. La mamma pregava: «Madonna mia fatela riuscire bene questa Santa Comunione! Vergine Santa, io la affido tutta a voi!». Alla Messa il sacerdote si volse verso i comunicandi e parlò loro di Gesù che è tutto bontà e purezza… di Gesù che deve restare sempre nel loro cuore… Perciò guerra al peccato, sempre, anche a costo della loro vita… insieme al grande amore per Gesù i fanciulli dovranno avere una specialissima devozione alla Madonna, imitandone le virtù e onorandola ogni giorno con l’Ave Maria». La parola di Dio affondava nel cuore della piccola Maria come il buon seme in un terreno ben preparato. Non una sillaba era caduta invano. In chiesa con Maria vi erano dodici bambine e due bambini per la stessa festa. Tra i banchi della chiesa, vi erano parenti ed amici, a far da cornice ad una cerimonia sentita particolarmente dalla gente semplice.

Quando Maria ricevette Gesù ripeté a Lui la sua grande promessa, già formulata da molto tempo: «O Gesù piuttosto che offenderti mi faccio ammazzare». Poi il suo pensiero volò al padre defunto. Gli aveva voluto tanto bene. Quella preziosa Prima Comunione fu fatta in suo suffragio, come attestò mamma Assunta.

Don T. Signori disse che Maria si era distinta fra le altre bambine per la pietà, ardore, devozione nel prepararsi a fare la sua Comunione, tanto che egli avrebbe desiderato che tutte le bambine si fossero preparate a ricevere in tal modo la SS.ma Eucaristia. La santa fanciulla poté ricevere in vita non più di quattro o cinque comunioni. Il sacerdote che ufficiava regolarmente la chiesetta di Conca ogni domenica non aveva il permesso di confessare perché era troppo giovane. Perciò ben si spiega che in tali occasioni la Santa non poté ricevere l’Eucaristia, essendo allora d’uso, anche per chi non aveva peccati gravi, di confessarsi prima di ogni singola comunione. Questo però non toglie nulla alla sua fede e devozione. Le strade erano proibitive: tutte pozzanghere d’inverno, cariche di miasmi d’estate. Ora se Maria poté ricevere la Prima Comunione all’età di dieci anni e otto mesi, lo dovette alle sue insistenze, alla sua fede viva, al suo ardente desiderio di ricevere Gesù, del cui amore aveva pieno il suo cuore innocente. O meglio, fu Dio stesso che le accese nel cuore tanto desiderio della divina Eucaristia, affinché nutrita in tempo del Pane degli Angeli, crescesse sempre più in quelle virtù cristiane che la facevano assomigliare agli angeli e la preparassero al grande atto del martirio. Lo stesso suo uccisore affermò: «Nella circostanza della sua Prima Comunione si fece ancora più ubbidiente… ed anche in seguito continuò questo miglioramento di vita». Il giorno della sua Prima Comunione segnò una data decisiva nella sua storia, infatti ella disse: «Mamma, sarò più buona» e mantenne con fedeltà l’impegno.

«Teresa quando ci riandiamo?»: queste parole dette da Maria alla Cimarelli lo stesso giorno della Prima Comunione, dimostrano il suo grande desiderio eucaristico. Questo desiderio in linguaggio ascetico si chiama comunione spirituale: «La comunione sacramentale si perfeziona con la comunione spirituale che ne perpetua i santi effetti» (Tanqueray).

MODELLO DI VIRTÙ

Maria ci è presentata dai testimoni come una fanciulla ubbidiente ed assennata, dedita alla famiglia, ligia al dovere. Modesta e riservata… tutti quelli che l’hanno conosciuta l’hanno descritta come un ideale di fanciulla.

Il proposito di diventare più buona fu per lei un impegno serio che mantenne fino alla morte. Sentiamo la mamma: «Sempre, sempre, sempre Maria mi ha fatto l’ubbidienza. Correggeva anche i fratelli e quando il fratello maggiore mi dava qualche dispiacere ella lo rimproverava dicendo: “Fai inquietare la mamma perché non c’è più il babbo!… Come faresti se non ci fosse più la mamma?”. Non ho notato in lei nessun difetto. Se a volte l’ho sgridata è stato perché io, preoccupata dell’azienda, sentendomi nervosa, eccedevo anche se ella non ne avesse colpa, anche oggi me ne faccio un rimprovero; Maria prendeva la sgridata immeritata, con calma, senza rispondere e seguitava le sue faccende non portandomi affatto il broncio». «Alla prima chiamata della mamma lasciava ogni cosa e rispondeva ubbidiente», aggiunse Alessandro.

UN FIORE PURISSIMO

Dire santa Maria Goretti è lo stesso che dire purezza illibata. Fu educata da sua madre alla modestia fin dall’infanzia. Anche il suo uccisore testimoniò: «Seguendo le orme della madre era modesta». Mamma Assunta disse: «Ebbi cura della sua modestia e non permisi mai che vestisse o spogliasse i fratellini, come pure facevo dormire in una camera i maschietti e in un’altra le femmine che, morto mio marito, facevo dormire in camera mia».

Quando si stava preparando alla Prima Comunione, avendo sentito certe parolacce da una compagna, scambiate con un giovane, mentre stava riempiendo una brocca alla fontana, le riferì scandalizzata alla mamma, che le rispose: «Fa’ che quello che è entrato da un orecchio esca dall’altro», e l’ammonì di non pronunciare mai simili cose. Ed ella di rimando: «Se io dovessi parlare come lei è meglio morire». Questo dimostra che sapeva scegliere tra i diversi valori i più giusti. Non contenta di premunirla con le parole, la mamma la vigilava mentre andava per la strada. «Quando andava a Nettuno, perché distante, era accompagnata da me o dalla signora Cimarelli». Alla vigilanza aggiungeva la raccomandazione di fuggire le cattive compagnie, che portano inevitabilmente al male.

Le donne del borgo dicevano ad Assunta: «Che angelo di figliola avete voi! Se le si dice qualche cosa risponde modestamente, tira diritto per la sua strada e non si ferma con nessuno».

Il movente per la santa era la fede, l’amore a Gesù e alla Madonna, la paura dell’inferno che si merita col peccato! Fu questo il solo motivo che ella oppose all’aggressore al momento del martirio. Infatti disse in quell’occasione: «Alessandro che fai? Tu vai all’inferno, Dio non vuole!».

UNA GIORNATA DI MARIA

Dopo la morte di Luigi Goretti, tutti dovettero riprendere il lavoro quotidiano e adattarsi alla nuova situazione. Assunta prese il posto del marito lavorando il terreno con i Serenelli e Maria prese il governo della casa per le faccende domestiche. Ella era una massaia laboriosa e solerte e si occupava di tutte le faccende di casa: spazzare, rifare i letti, mettere in ordine i vari oggetti, lavare i piatti, andare a prendere l’acqua, lavare i panni, attendere al pollaio, preparare i cibi da cuocere, pulire le verdure, far cuocere i cibi, provvedere la legna per il fuoco, preparare la tavola, ecc. Soprattutto badare ai fratellini e alle sorelline più piccoli. Solo quando si richiedeva la “forza”, come per levare il paiuolo dal fuoco, veniva la mamma. Sicché per la sua età faceva anche troppo.

La madre raccontava che «alla domenica dormivano tutti un po’ di più, ma c’era da andare alla Santa Messa e da accompagnarvi i fratelli, ed allora quante raccomandazioni faceva Maria perché fossero ordinati nella persona e nei vestiti.

In chiesa li teneva vicino a sé, li faceva genuflettere. Quando una volta la settimana c’era da fare il pane dovevamo alzarci prima. Alla sera andava ancora alla fontana a prendere l’acqua per il mattino, poi subito dopo cena faceva inginocchiare i fratellini per dire il Rosario e le orazioni e li accompagnava a letto.

Ma non aveva ancora finito e senza disturbare il sonno dei fratellini veniva vicino a me ed alla luce della lanterna ad olio rammendava calzoni, camicie, raccontandomi i fatti del giorno. Poi dopo aver dato l’ultimo sguardo ai fratellini, diceva le preghiere e cadeva immediatamente nel sonno. Io che tante volte non riuscivo ad addormentarmi, la contemplavo un momento, pregavo per lei e prima di spegnere la luce la benedicevo. Come avrei potuto immaginare un angelo migliore?».

LE INSIDIE

Benché fuggite con ogni mezzo, tuttavia le insidie vennero a raggiungerla nello stesso focolare domestico: l’insidiatore fu il ventenne Alessandro della famiglia Serenelli con i quali i Goretti si erano uniti in società di lavoro e che vivevano nello stesso casolare. Una bassa passione spingeva il giovane a porre gli occhi sull’innocente fanciulla.

Maria era una ragazzina indifesa a causa della morte del padre, costretta dalla povertà ad accudire a lavori domestici superiori alla sua età. Intimorita dalle minacce e dalle tentazioni di Alessandro, si rifugiò nella preghiera e ricorse alla Madonna recitando anche più Rosari al giorno e si rinforzò sempre più in quel proposito della sua Prima Comunione:

O Gesù, piuttosto di offenderti mi faccio ammazzare!». Alessandro era un giovanotto di vent’anni, pronto a partire per il servizio militare, pieno di vita, robusto, privo della guida materna, in balìa delle sue passioni, con un carattere chiuso. Pare che il tempo della tentazione almeno iniziale, risalisse a circa un anno prima. Che Maria sul letto di morte non l’abbia ricordato è spiegabile: era in fin di vita, forse, anche, un anno prima ci aveva capito ben poco non essendo stata una tentazione così cruda come quelle dell’ultimo mese. Ecco la testimonianza di Alessandro: «Io coabitavo con la famiglia Goretti e per ben due volte nel mese di giugno tentai di indurla alle mie voglie. E vero che circa un anno prima feci a Maria una prima proposta… alla quale non volle acconsentire. Io fin dalla prima volta ingiunsi alla ragazza di non dir nulla alla madre, e glielo dissi con forma severa, sicché ne rimase intimorita. Io – prosegue Alessandro – non deposi mai il desiderio di raggiungere i miei intenti e dopo il secondo tentativo nella mia mente si formò il proposito di ucciderla se avesse continuato ad opporsi alle mie voglie». Da allora Maria fece l’impossibile per non rimanere sola in casa, senza che nessuno ne intuisse il dramma. Il particolare non sfuggì ad Alessandro: «Marietta cercava di non star sola con me ed io lo rilevai bene. Mi accorsi pure che cercava di schivarmi, ella poi aveva intensificato le sue preghiere. Tante volte io l’ho sentita chiedere alla mamma che le permettesse di andare ai sacramenti». La fanciulla viveva nella più completa solitudine la tragedia più logorante della sua vita. Spesse volte il suo atteggiamento suscitò incomprensioni e rimproveri; la stessa mamma Assunta non percepì lo stato d’animo nel quale si trovava sua figlia. Come abbiamo detto, la luce tra tanta oscurità le venne dalla preghiera e dalla fiducia in Dio. Solo un frase sussurrata dolcemente alla cara Teresa Cimarelli tradì la sua angoscia: «Teresa andiamo domani a Campomorto? Non vedo l’ora di fare la Comunione!». Quel domani fu il 5 luglio 1902, il primo giorno della sua passione.

Alessandro assunse un contegno sempre più ostile verso la fanciulla. La madre depose: «Un mese circa prima dell’assassinio, Alessandro si mostrava spesso aspro verso Maria dandole ordini gravosi con animo, si vedeva, di farle dispetto. Non gli andava più bene niente di quello che ella faceva. Maria faceva lo stesso le faccende ordinate di nuovo da lui, pur facendo le giuste rimostranze qualche volta a voce, qualche volta col pianto, tanto che io più volte dovevo confortarla dicendole: “Porta pazienza, tanto fra poco andrà a fare il soldato”».

MARTIRIO ALLE PALUDI PONTINE

Alessandro era più che mai risoluto a spuntarla, e voleva ad ogni costo piegare la fanciulla alle sue voglie. Dal canto suo, Maria era decisa a resistere, anche a costo della vita, infatti, i ripetuti attentati alla sua purezza erano però sempre stati coraggiosamente respinti.

Durante la battitura del favino, fatta sull’aia del casolare, Maria, dopo aver rigovernata la cucina, aveva preso una camicia da rammendare con le pezze e pose a dormire su una coperta imbottita, distesa sul pianerottolo, la piccola Teresa di circa due anni e mezzo, e le si era seduta vicino a lavorare.

Ecco il racconto dello stesso Alessandro: « Il 5 luglio io ero risoluto a ritornare al terzo assalto e verso le ore 15,00 mentre io stavo sul carro triturando le fave nell’aia, vedendo Maria sul pianerottolo, intenta a rattoppare la mia camicia che avevo dato alla mamma, pensai che era quello il momento opportuno per attuare il mio disegno. Scesi dal carro, pregai la mamma di sostituirmi ed io mi recai in casa. Mio padre si trovava davanti alla stalla dei buoi, coricato a terra preso da un attacco di febbre di malaria. Gli domandai come stava e quindi continuai la mia strada. Passai davanti a Maria senza dir nulla e andai in una camera dove vi era una cassetta di ferri vecchi per prendervi un’arma, trovai un punteruolo… lo presi… ciò fatto mi accostai a Maria, la invitai ad entrare dentro casa. Ella non rispose, né si mosse. Allora l’acciuffai quasi brutalmente per un braccio e, facendo ella resistenza, la trascinai dentro la cucina. Ella intuì che io volevo ripetere l’attentato delle due volte precedenti e mi diceva: “No, no, Dio non vuole, se fai questo vai all’inferno”.

Io allora vedendo che non voleva assolutamente accondiscendere alle mie brutali voglie, andai su tutte le furie e, preso il punteruolo, cominciai a colpirla… In quel momento io capivo bene che volevo compiere un’azione contro la legge di Dio e che volevo indurre Maria al mio peccato e appunto l’uccidevo perchè si opponeva. Ella ripeteva: “Che fai Alessandro tu vai all’inferno”. Nel momento che vibravo i colpi, non solo si dimenava per difendersi, ma invocava ripetutamente il nome della madre e gridava: “Dio, Dio, io muoio! Mamma, Mamma”. Io ricordo di aver visto del sangue anche sulle sue vesti e di averla lasciata mentre ella ancora si dimenava, però capivo bene che l’avevo colpita mortalmente. Buttai l’arma dentro il cassone e mi ritirai nella mia camera, mi chiusi dentro e mi buttai sul letto». Tre anni dopo, Alessandro completò nel processo Apostolico la sua deposizione che aveva fatto ad Albano nel processo Ordinario. Ecco come riferì le parole di Maria al momento del martirio: «Dio non vuole queste cose, tu vai all’inferno. Sì, sì, Dio non vuole queste cose, tu vai all’inferno!».

Nell’ora del dramma nessuno fu testimone della “passione” di Maria. Il motivo dell’uccisione è chiaro e lampante: la fortezza della martire di fronte al peccato. Lo riconobbe lo stesso uccisore, prima davanti alle autorità civili, poi a quelle ecclesiastiche. «Lo ripeto, l’unica causa per cui aggredii Maria e la uccisi, fu quella che ho esposto, cioè che ella non ha voluto acconsentire le due volte precedenti alla mia volontà di compiere atti disonesti».

Finalmente con le poche forze rimaste, Marietta si trascinò fino alla porta e chiamò il vecchio Serenelli: «Venite su che Alessandro mi ha ammazzata». La piccola Teresa svegliata di soprassalto incominciò a smaniare e a piangere, il suo pianto smorzò il frastuono della trebbiatura. Quando la madre sentì la piccola piangere, alzando gli occhi non vide più Maria sul pianerottolo, sicché temendo che la piccola cadesse per le scale, mandò suo figlio Mariano. Mentre costui andava, la madre vide il vecchio Serenelli che si era alzato da dove riposava e saliva frettolosamente le scale. Quando egli aprì la porta si voltò per chiamarla: «Assunta venite un po’ su», poi chiamò anche Mario Cimarelli che batteva la fava sulla sua aia. «Madonna mia! Che sarà successo in casa mia?» mormorò Assunta, mentre angosciata scendeva dal carro. Quando giunse la madre vide che Mario aveva in braccio Maria con la testa appoggiata alla spalla, come se fosse morta. La fanciulla fu adagiata sul letto. Fu questa l’immagine che si presentò agli occhi della madre. «Io seguii Marietta che veniva portata nella camera da letto e mi balenò subito il sospetto che la mia piccola fosse stata violentata da Alessandro che non era presente… Io diedi un urlo ed allora i Cimarelli mi portarono fuori sul pianerottolo svenuta». Tornò Teresa con l’aceto e riuscì a far riprendere mamma Assunta. Poco dopo anche Marietta diede segni di vita e la verità si fece strada; la madre le domandò: «Marietta mia, cosa è successo, chi è stato, com’è stato?» Ella rispose: È stato Alessandro mi voleva far fare del male ed io non ho voluto».

«Allora – continua la madre – diedi un urlo e gli altri mi portarono in casa Cimarelli».

Mario Cimarelli il primo ad accorrere, così descrisse la scena straziante: la ragazza giaceva carponi a terra, poggiata nel fianco destro… raccolta da terra la Goretti con le vesti intrise di sangue, la adagiai sul letto della madre… sopraggiunta Teresa le cambiò la veste insanguinata e stracciata. Poi con l’aiuto di Mario, le fasciò le ferite, mentre Maria ripeteva il suo monologo: «Alessandro quanto sei triste… tu vai all’inferno». La veste era anche impolverata, perchè sul pavimento mancavano molti mattoni, e la giovinetta per non lasciarsi scoprire le vesti da Alessandro si era avvoltolata per terra su quel calcinaccio. Mamma Assunta piangeva dirottamente e diceva: «Teresa mi hanno ucciso la figlia!».

«Teresa – gemette Maria – voglio star sola con te. Levami di qui, per carità non fate venir su Alessandro».

«Che ti ha fatto Alessandro Marietta?» Le domandò Teresa.

«Mi voleva far fare del male ed io gli dicevo di no! E così lui mi ha tirato tanti colpi».

La notizia dell’odioso misfatto di Le Ferriere si diffuse rapidamente per tutta la Palude. Decine di persone intenzionate a fare giustizia sommaria marciarono compatte verso Cascina Antica. Anche l’uomo della Palude aveva un suo codice d’onore che non era possibile calpestare impunemente e il gesto di Alessandro non era tra quelli che avevano diritto ad attenuanti. In una situazione così tragica, nella solitudine delle Paludi Pontine, l’opera dei Cimarelli fu provvidenziale. Erano tre fratelli: Mario, Domenico e Antonio, più Teresa, la moglie di Mario. Domenico corse subito a Conca ad avvisare il conte Mazzoleni dell’accaduto e per farsi dare un cavallo per andare a chiamare un medico. Mario appena prestati insieme alla moglie i primi soccorsi, si precipitò a Nettuno a cercare i carabinieri e il medico condotto. Il Mazzoleni mandò a chiamare i carabinieri di Cisterna e la Croce Rossa di Carano. Il conte quando giunse da Conca fece sorvegliare l’assassino da guardiani armati in attesa dell’arrivo dei carabinieri. Poco dopo arrivarono i carabinieri che arrestarono Alessandro e riuscirono a stento a difenderlo dalla folla inferocita. Il Mazzoleni poi chiamò la madre per dirle che doveva accompagnare la figlia all’ospedale sul Carro della Croce Rossa. Dopo l’arrivo del mezzo di soccorso, distesa su una barella, Marietta varcò quella porta che dava sul pianerottolo e scese i gradini tra gli occhi velati di pianto e di amarezza delle persone presenti. Sul piccolo ponte dell’Astura i contadini si toglievano il cappello come facevano solo nel giorno del Corpus Domini. Quella notte a Cascina Antica non dormì nessuno. I fratelli Goretti vennero amorevolmente ospitati nella casa dei Cimarelli. La signora che li ospitò attestò di averli trovati durante la notte con gli occhi sbarrati dalla paura. Marietta per loro era veramente tutto!

La Croce Rossa Arrivò a Nettuno alle otto di sera. Mentre si aspettava che si aprisse la sala operatoria, Maria chiedeva un po’ d’acqua. Il cappellano dell’Ospedale dei Fatebenefratelli chiese: «Sposa, siamo cristiani?» Ed ella: «Eh, mancherebbe altro!» Ed aggiunse: «Allora prima di operarla la confessiamo». Ed ella acconsenti volentieri. A richiesta del dottore – riferisce mamma Assunta – io domandai alla figliola se mai altre volte Alessandro l’avesse tentata. Ed ella mi rispose con voce calma: «Mamma, altre due volte». Ed io: «Oh Madonna Santissima, perchè non l’hai detto a mamma tua?». Ed ella rispose: «Perchè mi aveva detto che mi avrebbe ammazzata se io lo dicevo. E pertanto poi mi ha ammazzata lo stesso». Ed io ancora: «Da quanto tempo?» Ed ella: «Da un mese».

La gravità delle condizioni della piccola non permisero l’anestesia ed i medici Bartoli, Perotti ed Onesti tentarono l’impossibile. Il dott. Bartoli così ricordò quei momenti: «La trovai colpita in più parti dell’addome e nel torace, come pure dopo nell’atto dell’autopsia, la trovai ferita al cuore. Durante le cure che io le apprestavo la fanciulla aveva invocazioni alla Madonna e conservò la sua calma. Ora non ricordo le parole precise pronunciate dalla Goretti, però attesto che ella ha sempre conservato lucidissime le facoltà mentali».

Appena fuori la camera operatoria Marietta sussurrò alla mamma: «Mamma sto bene, come stanno i fratellini? Stai qua stanotte?». Però non fu permesso alla madre di rimanere in ospedale. Appena si fece giorno mamma Assunta ritornò all’ospedale e chiese a Maria come stesse: «Benino» rispose la fanciulla. Ma la voce era più debole della sera precedente. Maria le chiese dove avesse passato la notte, manifestò il desiderio di rivedere i fratellini e la pregò di non far entrare il Serenelli. Ma la setticemia compiva inesorabilmente il suo corso, la febbre divenne altissima, il suo volto sempre più trasparente.

«Pareva una santa Filomena, tutta bianca con la chioma sciolta – raccontò mamma Assunta – la guardavo non solo per affetto ma anche per venerazione». Vennero i carabinieri per il rito dell’interrogatorio e poco dopo i medici per la medicazione. I ricordi tornarono alla mente di Marietta in modo convulso, la sua passione continuò sempre più straziante. Le divenne insopportabile anche la sete: «Datemi una goccia d’acqua. Possibile che non possiate darmi un goccia d’acqua?»

«Mariettina – rispose la mamma – il dottore ha detto che ti farebbe male. Porta pazienza per amore di Gesù in croce assetato più di te».

L’APPARIZIONE DELLA MADONNA

Sono sorprendenti le analogie tra gli ultimi momenti di Maria e quelli di Gesù: le stesse parole, la stessa sete, il medesimo perdono. I presenti rimasero colpiti dalle numerose espressioni di amore di Maria per la Madonna. Tanto amore alla Vergine spinse il cappellano dell’ospedale, P. Martino Guijarro, a proporre alla piccola martire la sua iscrizione all’Associazione delle Figlie di Maria. A quella proposta ella aprì gli occhi e un sorriso sfiorò il suo viso angelico. Nella cameretta stessa erano presenti due suore e una pia contessa che l’assistevano; venne fatta la breve funzione della iscrizione e la benedizione della medaglia della Madonna. Il suo volto, sempre più di cielo, s’illuminò quando il cappellano, iscrivendola all’associazione le appese al collo la medaglia che lei non finiva poi di baciare. Suor Aurelia Pecchini, riferì che a un certo momento Maria vedeva la Madonna e chiedeva di essere posta più vicino a lei. Ma nessuno la vedeva. E lei meravigliata: «Possibile che non la vediate? È così bella!…, tutta luce!…, tutta fiori! Mettetemi vicino alla Madonna… io voglio stare più vicino alla Madonna».

Chi fu presente non ebbe nessun dubbio che la Madonna le fosse apparsa.

IL PERDONO DELL’ASSASSINO

Imitando Gesù, Maria perdonò il suo assassino. Pare che una prima volta l’avesse perdonato per suggerimento della mamma, nelle lunghe ore di attesa sul letto di famiglia, prima che venisse trasportata all’ospedale. La sorella Teresa affermò che la madre fu premurosa nell’inculcare alla figlia il pensiero del perdono e che Maria non ebbe nessuna esitazione, e disse che lo perdonava ben volentieri e che lo voleva con sé in Cielo.

Il perdono del suo assassino è il gesto più qualificante della sua santità. Fu il parroco Temistocle Signori a porre esplicitamente la domanda, infatti dopo aver detto qualche cosa di Gesù in croce, le chiese se anche lei era pronta a perdonare Alessandro per amore di Gesù. La risposta non si fece attendere, seppur con quel filo di voce che le rimaneva: «Sì per amore di Gesù gli perdono, e voglio che venga con me in Paradiso». La stessa mattina Alessandro con il treno venne condotto a Roma nel carcere Regina Coeli. Particolare significativo: il convoglio passò davanti all’ospedale Orsenigo mentre la Goretti lo stava perdonando. Accanto al perdono di Maria va ricordato anche quello della madre, la quale, appena fu pronunziata la sentenza di condanna per Alessandro, fu interpellata dal Presidente del Tribunale: «Signora Assunta Goretti, perdonate voi all’uccisore di vostra figlia?» «Per conto mio – rispose Assunta – sì, gli perdono di cuore, signor Presidente». Tra la folla si udì un brusìo confuso. Qualcuno disse: Io non gli perdonerei!». Ma la coraggiosa donna osservò: «E se neppure Gesù Cristo perdonasse a noi?».

Le condizioni di Marietta peggiorarono improvvisamente, perse più volte conoscenza. Poco prima che la fanciulla morisse, mamma Assunta chiese al medico se Alessandro riuscì comunque nel suo intento: «Non dubitare – rispose il medico – ella è come è nata».

L’Arciprete T. Signori ricorda: Nei momenti di delirio rievocava le circostanze della sanguinosa tragedia e fra le altre diceva le testuali parole: «Alessandro, che fai…, tu vai all’inferno…», espressioni che ella dovette dire nell’atto dell’esecrando delitto. Le sue ultime premure furono per i fratellini, la mamma, il babbo, quasi un testamento di amore per coloro che erano stati il suo mondo.

Chiamò anche la dolce Teresa in un’impossibile invocazione di aiuto, poi si abbandonò serenamente senza vita sul cuscino. Era il 6 luglio 1902, aveva 11 anni, 8 mesi e 21 giorni.

Il popolo intuì chiaramente: « E’ morta una martire, è morta una santa». Mamma Assunta ricorda che, dopo i primi tentativi di conforto, la gente passò addirittura alle congratulazioni per essere la mamma fortunata di una Santa.

I FUNERALI

Il giornale «Il Messaggero» di Roma, il 7 luglio fece conoscere a Roma e a tutta l’Italia l’eroismo di Maria. Ai funerali vi fu una grandissima partecipazione di persone, di associazioni, di autorità venute da Roma e anche di numerosissime personalità. L’arciprete Signori, che fu a capo di tutta quella grande manifestazione, terminò con questa bella invocazione: «… E tu, fanciulla eroica, insegna alle nostre fanciulle, e a tutte, come si lotta e si muore in difesa della purezza. Intercedi presso la Vergine Immacolata particolarmente per la nostra gioventù e per le Figlie di Maria, della cui schiera divenisti sorella nell’ultima ora! Tu, che tutti noi speriamo salutare un giorno anche qual loro seconda protettrice!». Egli nel redigere l’atto di morte nel Registro dei Defunti annotava che: «La fanciulla, timorata di Dio… trasportata all’ospedale Fatebenefratelli, si confessò, ricevette il S. Viatico e l’Olio degli Infermi dal cappellano Rev. P. Martino Guijarro. E perdonando il suo uccisore spirò nel bacio del Signore».

AUTENTICITÀ DEL MARTIRIO

Il martire è un testimone e nella terminologia cristiana è la persona che ha reso testimonianza a Gesù Cristo con il suo sangue. Primo elemento è il fatto provato della morte violenta. Non è sufficiente che essa sia stata minacciata o decretata se poi per un qualsiasi motivo non si è verificata. La morte deve poi essere dipesa da una responsabilità estrinseca e distinta dalla vittima.

Il terzo elemento è la causa, la ragione della morte. Il martire deve morire per un motivo di fede o di una virtù morale riferibile o riferita a Dio. Motivo della morte può essere la fedeltà al Magistero della Chiesa e ad un precetto morale e naturale in quanto sancito dalla autorità di Dio.

Vi è infine un elemento psicologico che integra la figura del martire e lo manifesta vero testimone di Cristo: la morte deve essere consapevolmente accettata e subita con particolari disposizioni spirituali che sono la costante fortezza e la serena mitezza, ispirati a princìpi di ordine soprannaturale.

Maria espresse chiaramente il motivo per cui preferì la morte: «No, no è peccato, Dio non vuole, tu vai all’inferno». Il perdono, poi, concesso al suo uccisore prima di morire, oltre a rivelare il livello della sua maturità cristiana, dimostra la serenità con cui accettò la morte.

LA SANTITÀ NON SI IMPROVVISA

La vita di S. Maria Goretti è stata illuminata dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Non ha fatto grandi gesta, ma è stata fedele al suo dovere quotidiano ed ella ci conferma ancora che quello che ha detto Gesù è sempre vero ed attuale: «Chi è fedele nelle piccole cose lo è anche nelle grandi» (Lc 16, 10). Così Maria nella prova più grande, aiutata dalla grazia soprannaturale, non ha voluto offendere il suo Redentore.

Ella, con la sua famiglia, ha anche molto da insegnare a tutti, specialmente ai genitori, che hanno la responsabilità della salvezza delle anime dei loro figli. San Carlo Borromeo diceva: «Allevare, educare i figli, vuol dire condurli a Gesù». Tutti i genitori, come fecero i genitori di Maria, devono insegnare ai figli a pregare, ad aver e conservare il timor di Dio, ricordandosi che esso è un dono dello Spirito Santo e che come dice la S. Scrittura: «…è l’inizio della Sapienza» (Ecl 1, 16; Prov 9, 10). Tra l’altro nell’antifona della Comunione della Messa per la Santa (il 6 luglio), leggiamo: «Il timore del Signore è il suo tesoro» (Is 33,6).

Quanto sia importante il timor di Dio lo conferma anche questo episodio riportato da P A. Rodriguez: «All’inizio della Compagnia di Gesù, vi erano molti sacerdoti giovani ed erano visti in mezzo a tante occasioni e pericoli eppure traspirava da loro tanto odore di castità, il che molto sorprendeva la corte, dove perciò si parlava con ammirazione dei Padri. Dicono che il Re, ragionando un dì col P. Araoz, gli disse: “Mi è stato detto che quelli della Compagnia portano con sé una certa erba che ha la virtù di conservare la castità”. Il P Araoz, che era un uomo assai pronto ed accorto, gli rispose: “È stato detto il vero a Vostra Maestà”. Soggiunse il Re: “Ditemi, per la vita vostra, che erba è questa?”. “Sire, replicò il Padre, l’erba che quelli della Compagnia portano con sé per conservare la castità è il santo timor di Dio, questa è l’erba che fa tale miracolo, perchè ha la virtù di far fuggire i demoni”» (P A. Rodriguez, Esercizio di perfezione e di virtù cristiane, Soc. Editrice Internazionale, vol. III, giugno 1963).

La madre affermò: «Che fosse brava lo sapevo, che sarebbe diventata Santa non me l’aspettavo… è vero che feci di tutto per darle un’educazione cristiana, ma non avrei mai creduto che fosse così eroica da dare la sua vita». Dio è sempre stato al primo posto nella vita di Maria ed Egli ha orientato tutta sua vita. Qualsiasi tentativo di raccontare la vita della Santa escludendo questo valore è una manipolazione che non tiene conto della verità e della storia. La fede di Maria si è manifestata nel quotidiano, nelle faccende concrete della vita, nell’accettazione del dolore e della gioia, nel servizio degli altri, nell’abbandono alla Provvidenza, nell’amore alla Vergine e alla Santa Eucaristia.

Sulla tomba di Marietta avvennero guarigioni prodigiose, la Chiesa quindi prese in esame la documentazione presentata dal passionista P Mauro Liberati e il 31 maggio 1935 iniziò il Processo canonico ad Albano Laziale.

Il 25 marzo 1945 Pio XII riconobbe l’autenticità del suo martirio.

Il 27 aprile 1947 fu dichiarata beata. Ecco un estratto del discorso del Papa in quell’occasione: «Maria Goretti che dovette così giovane, dodicenne, lasciare questa terra, è un frutto maturo del focolare domestico, ove si prega, ove i figli sono educati nel timore di Dio, nell’ubbidienza verso i genitori, nell’amore della verità, nella verecondia, nella illibatezza; ove essi fin da fanciulli si abituano a contentarsi di poco, ad essere ben presto di aiuto nella fattoria… La nostra Beata fu una forte. Ella sapeva e comprendeva, e precisamente per ciò preferì morire. Non aveva ancora compiuto dodici anni, quando cadde martire… No, non è un’anima piccola e debole, è un’eroina, che sotto la stretta del ferro del suo uccisore, non pensa alla sua sofferenza, ma alla bruttezza del peccato, che risolutamente respinge…».

LA CANONIZZAZIONE

La canonizzazione avvenne il 24 maggio 1950, durante l’ Anno Santo, tre anni appena dopo la beatificazione: ad essa assistettero anche mamma Assunta e i suoi figli. La cerimonia fu celebrata all’aperto, in piazza San Pietro, a causa dell’immensa folla di devoti convenuti da ogni parte del mondo. Si calcola che furono presenti almeno 500.000 persone. Riportiamo una parte del discorso tenuto da Pio XII in quell’occasione: «Se è vero che nel martirio di Maria Goretti sfolgorò soprattutto la purezza, in essa e con essa trionfarono anche le altre virtù cristiane. Nella purezza era l’affermazione più elementare e significante del dominio perfetto dell’anima sulla materia; nell’eroismo supremo, che non si improvvisa, era l’amore tenero e docile, obbediente ed attivo verso i genitori; il sacrificio nel duro lavoro quotidiano; la povertà evangelicamente contenta e sostenuta dalla fiducia nella Provvidenza celeste; la religione tenacemente abbracciata e voluta conoscere ogni giorno di più, fatta tesoro di vita e alimentata dalla fiamma della preghiera, il desiderio ardente di Gesù Eucaristico, ed infine, corona della carità, l’eroico perdono concesso all’uccisore; rustica ghirlanda ma così cara a Dio, di fiori campestri, che adornò il bianco velo della Prima Comunione, e poco dopo il suo martirio… O giovani, fanciulli e fanciulle, pupille degli occhi di Gesù e nostri, – dite – siete voi ben risoluti a resistere fermamente, con l’aiuto della grazia divina, a qualsiasi attentato (Sì!…) a qualsiasi attentato che altri ardisse fare alla vostra purezza? (Sì!…).

E voi, padri e madri, al cospetto di questa moltitudine, dinanzi alla immagine di questa vergine adolescente, che col suo intemerato candore ha rapito i vostri cuori, alla presenza della madre di lei, che, educatala al martirio, non ne rimpianse la morte, pur vivendo nello strazio, ed ora s’inchina commossa ad invocarla, – dite – siete pronti ad assumere il solenne impegno di vigilare, per quanto è da voi, sui vostri figli, sulle vostre figlie, al fine di preservarli e difenderli contro tanti pericoli che li circondano, e di tenerli sempre lontani, dai luoghi di addestramento all’empietà e alla perversione morale (Sì!… ) (Nella registrazione sonora si sentono bene questi «sì» levarsi della piazza gremita)

Ed ora, o voi tutti che ci ascoltate, in alto i cuori! Sopra le malsane paludi ed il fango del mondo si estende un cielo immenso di bellezza. È il cielo che affascinò la piccola Maria; il cielo a cui ella volle ascendere per l’unica via che ad esso conduce: la religione, l’amore di Cristo, l’eroica osservanza dei comandamenti… ».

Il Papa poi decretò che il 6 luglio è la festa liturgica annuale di santa Maria Goretti.

 

 

La Matita di Dio – Madre Teresa

Quando si entra in una chiesa o cappella delle Missionarie della Carità, non si può non notare il crocefisso che sovrasta l’altare, al fianco del quale si trova la scritta: «I thirst» («Ho sete»): qui sta la sintesi della vita e delle opere di Santa Teresa di Calcutta, canonizzata il 4 settembre 2016 da Papa Francesco in piazza San Pietro, alla presenza di 120 mila fedeli e pellegrini.

Donna di fede, di speranza, di carità, di indicibile coraggio, Madre Teresa aveva una spiritualità cristocentrica ed eucaristica. Usava dire: «Io non posso immaginare neanche un istante della mia vita senza Gesù. Il premio più grande per me è amare Gesù e servirlo nei poveri». Questa suora, dall’abito indiano e dai sandali francescani, estranea a nessuno, credenti, non credenti, cattolici, non cattolici, si fece apprezzare e stimare in India, dove i seguaci di Cristo sono la minoranza.
Nata il 26 agosto 1910 a Skopje (Macedonia) da benestante famiglia albanese, Agnes crebbe in una tribolata e dolorosa terra, dove convivevano cristiani, musulmani, ortodossi; proprio per tale ragione non le fu difficile operare in India, uno Stato dalle lontane tradizioni di tollenza-intolleranza religiosa, a seconda dei periodi storici. Madre Teresa definiva così la sua identità: «Di sangue sono albanese. Ho la cittadinanza indiana. Sono una monaca cattolica. Per vocazione appartengo al mondo intero. Nel cuore sono totalmente di Gesù».
Buona parte della popolazione albanese, di origine illirica, nonostante abbia subito la sopraffazione ottomana, è riuscita a sopravvivere con le sue tradizioni e con la sua profonda fede, che affonda le radici in san Paolo: «Tanto che da Gerusalemme e paesi circonvicini, fino alla Dalmazia ho portato a compimento la missione di predicare il Vangelo di Cristo» (Rm 15,19). Cultura, lingua e letteratura dell’Albania hanno resistito proprio grazie al Cristianesimo. Tuttavia la ferocia del dittatore comunista Enver Hoxha vieterà, con decreto statale (13 novembre 1967), qualsiasi religione, distruggendo da subito 268 chiese.
Fino all’avvento del tiranno, lafamiglia di Madre Teresa elargiva carità e bene comune a piene mani. Preghiera e Santo Rosario erano il collante della famiglia. Rivolgendosi ai lettori della rivista «Drita», nel giugno del 1979, Madre Teresa disse ad un mondo occidentale sempre più secolarizzato e materialista: «Quando penso a mia mamma e a mio papà, mi viene sempre in mente quando alla sera eravamo tutti insieme a pregare […] Vi posso dare un solo consiglio: che al più presto torniate a pregare insieme, perché la famiglia che non prega insieme non può vivere insieme».
A 18 anni Agnes entra nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto: partita nel 1928 per l’Irlanda, un anno dopo è già in India. Nel 1931 emette i primi voti, prendendo il nuovo nome di suor Maria Teresa del Bambin Gesù, perché molto devota della mistica carmelitana santa Teresina di Lisieux. Più tardi, come il carmelitano san Giovanni della Croce, sperimenterà la «notte oscura», quando la sua mistica anima proverà il silenzio del Signore.
Per circa vent’anni insegnò storia e geografia alle giovani di famiglie facoltosefrequentanti il collegio delle Suore di Loreto a Entally (zona orientale di Calcutta). Poi arrivò la vocazione nella vocazione: era il 10 settembre 1946 quando avvertì, mentre si recava in treno ad un corso di esercizi spirituali a Darjeeling, la voce di Cristo che la chiamava a vivere in mezzo agli ultimi degli ultimi. Lei stessa, che desiderò vivere come autentica sposa di Cristo, riporterà le parole della «Voce» nella sua corrispondenza con i superiori: «Voglio Missionarie indiane Suore della Carità, che siano il mio fuoco d’amore fra i più poveri, gli ammalati, i moribondi, i bambini di strada. Sono i poveri che devi condurre a Me, e le sorelle che offrissero la loro vita come vittime del Mio amore porterebbero a Me queste anime».
Lascia, non senza difficoltà, il prestigioso convento dopo quasi vent’anni di permanenza e da sola si incammina, con un sari bianco (colore del lutto in India) bordato di azzurro (colore mariano),per gli slums di Calcutta in cerca dei dimenticati, dei paria, dei moribondi, che arriva a raccogliere, circondati dai topi, persino nelle fogne. A poco a pocosi aggregano alcune sue ex-allieve e altre ragazze ancora, per poi giungere al riconoscimento diocesano della sua congregazione: 7 ottobre 1950. E mentre, anno dopo anno, l’Istituto delle Suore della Carità cresce in tutto il mondo, la famiglia Bojaxhiu viene espropriata di tutti i suoi beni dal governo di Hoxha, e, rea del suo credo religioso, viene aspramente perseguitata. Dirà Madre Teresa, alla quale sarà vietato di rivedere i suoi cari: «La sofferenza ci aiuta a unirci al Signore, alle sue sofferenze» in un’azione redentiva.
Parole toccanti e forti userà in riferimento al valore della famiglia, primo ambiente, nell’età contemporanea, di povertà: «Qualche volta dovremmo farci alcune domande per sapere orientare meglio le nostre azioni […] Conosco per prima cosa, i poveri della mia famiglia, della mia casa, quelli che vivono vicino a me: persone che sono povere, però non per mancanza di pane?».
La «piccola matita di Dio», per usare la sua autodefinizione, è più volte intervenuta pubblicamente e con forza, anche di fronte a uomini politici e di Stato sulla condanna dell’aborto e dei metodi di contraccezione artificiali. Ha «fatto sentire la sua voce ai potenti della terra» ha detto, infatti, Papa Francesco nell’omelia della canonizzazione. Come non ricordare, allora, il memorabile discorso che tenne alla consegna del Premio Nobel per la Pace del 17 ottobre 1979 ad Oslo? Affermando di accettare il Premio esclusivamente a nome dei poveri, sorprese tutti per l’attacco durissimo all’aborto, che presentò come la principale minaccia alla pace nel mondo. Le sue parole risuonano più attuali che mai: «Sento che oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa (…). Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te e a te di uccidere me».
Sosteneva che la vita del bambino non nato è un dono di Dio, il maggior dono che Dio possa fare alla famiglia.«Oggi ci sono molti Paesi che permettono l’aborto, la sterilizzazione e altri mezzi per evitare o distruggere la vita fin dal suo inizio. Questo è un segno ovvio che tali Paesi sono i più poveri tra i poveri, poiché non hanno il coraggio di accettare nemmeno una vita in più. La vita del bambino non ancora nato, come la vita dei poveri che troviamo per le strade di Calcutta, di Roma o di altre parti del mondo, la vita dei bambini e degli adulti è sempre la stessa vita. È la nostra vita. È il dono che viene da Dio. […] Ogni esistenza è la vita di Dio in noi. Anche il bambino non nato ha la vita divina in sé». Ancora alla cerimonia dei premi Nobel, alla domanda che le venne posta: «Che cosa possiamo fare per promuovere la pace mondiale?», ella rispose senza esitare: «Andate a casa e amate le vostre famiglie».
Si addormentò nel Signore il 5 settembre (giorno della sua memoria liturgica) 1997 con un rosario fra le mani. Questa «goccia di acqua pulita», questa Marta e Maria inscindibili, ha lasciato in eredità un paio di sandali, due sari, una borsa di tela, due-tre quaderni di appunti, un libro di preghiere, un rosario, un golf di lana e…una miniera spirituale di inestimabile valore, alla quale attingere a profusione in questi nostri confusi giorni, spesso dimentichi della presenza di Dio.

Cristina Siccardi

San Massimiliano Kolbe

Oggi siamo di fronte a un volto luminoso, davanti al quale tutti, anche i non credenti, si inchinano volentieri e di cui tutti parlano con venerazione; S. Massimiliano Kolbe. Il fatto che egli abbia offerto la sua vita ad Auschwitz, riscattando con la sua carità e il suo martirio la dignità dell’uomo oppresso, basta ad attirargli tutte le simpatie.

Ma noi vogliamo piuttosto imparare a comprendere quel suo gesto così decisivo sullo sfondo di tutta la sua esistenza: la sua vocazione, gli ideali coltivati, l’infaticabile operosità, la ” ostinata ” missionarietà, perfino ciò che a qualcuno potrebbe sembrare ” eccessivamente integrista “, e che esprime invece la integralità della sua fede. Per non correre il rischio di staccare artificialmente la sua morte dalla sua vita.

P. Massimiliano Kolbe fu figlio del suo tempo e della sua terra: nacque nel 1894 in un paesino polacco, da genitori che gestivano un piccolo laboratorio di tessitura. Morì a 47 anni, nel 1941 ad Auschwitz. Entrò nel seminario dei francescani conventuali nel 1907, a tredici anni; novizio a 16 anni (1910).

Dal 1912 al 1919 studia filosofia e teologia a Roma. Laurea in filosofia nel 1915 e laurea in teologia nel 1919. Si interessa di fisica e di matematica e giunge fino a progettare nuovi tipi di aerei ed altre apparecchiature.

A Roma assiste a una processione di anticlericali-massoni che vanno a celebrare Giordano Bruno inalberando uno stendardo nero su cui Lucifero schiaccia S. Michele Arcangelo. In piazza S. Pietro vengono distribuiti volantini in cui si dice che ” Satana deve regnare in Vaticano e il Papa dovrà fargli da servo “.

Il giovane Massimiliano ha una concezione cavalleresca della vita, al modo degli antichi cavalieri medioevali: ma la sua dama è la Madonna.

Si convince che è iniziata ” l’Era dell’immacolata ” quella in cui Maria dovrà, come dice la Genesi, schiacciare la testa del serpente

Scrive:
“Bisogna seminare questa verità nel cuore di tutti gli uomini che vivono e vivranno fino alla fine dei tempi e curarne l’incremento ed i frutti di santificazione; bisogna introdurre l’Immacolata nei cuori de gli uomini affinché Ella innalzi in essi il trono del Figlio suo e li trascini alla conoscenza di Lui e li infiammi d’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù “.

 Da parte sua ha una devozione totale e gentile: chiama la Madonna con i nomi più teneri e familiari, come solo i polacchi sanno fare, profondamente convinto che i cristiani devono diventare ” cavalieri dell’Immacolata “, e fonda una associazione. È la ” Milizia dell’immacolata ” di cui abbiamo gli statuti autografi. Le prime parole che riguardano il fine dell’associazione sono queste:

” Cercare la conversione dei peccatori, degli eretici, degli scismatici, dei giudei ecc. e soprattutto dei massoni (parola sottolineata due volte); e soprattutto la santificazione di tutti sotto il Patrocinio e con la mediazione della Beata Maria Vergine “.

Accennavo all’accusa di integrismo che oggi P. Kolbe si tirerebbe addosso da parte di molti cristiani benpensanti e schifiltosi. Infatti la Milizia dell’immacolata non ha affatto un programma spiritualistico, non descrive tanto una ” opzione religiosa ” ma una scelta globale.

Eccola:

” Con l’aiuto di Dio dobbiamo fare in modo che i fedeli Cavalieri dell’immacolata si trovino dappertutto, ma specialmente nei posti più importanti come:

a) l’educazione della gioventù (professori di istituti scientifici, maestri, società sportive);

b) la direzione dell’opinione delle masse (riviste, quotidiani, la loro direzione e diffusione, biblioteche pubbliche, biblioteche circolanti, conferenze, proiezioni cinematografiche);

c) le belle arti: scultura, pittura, musica, teatro.

I militi dell’immacolata divengano in ogni campo i primi pionieri e guide nelle scienze (scienze naturali, storia, letteratura, medicina, diritto, scienze esatte ecc.).

Sotto il nostro influsso e sotto la protezione dell’Immacolata sorgano, si sviluppino i complessi industriali, commerciali, le banche.

In una parola la Milizia impregni tutto e in uno spirito sano guarisca, rafforzi e sviluppi ogni cosa alla maggior gloria di Dio, per mezzo dell’immacolata e per il bene della comunità “.

 

La realizzazione di questo progetto? Semplicemente incredibile per le possibilità di un uomo.

Nel 1927 inizia a costruire dal nulla un’intera città a circa 40 km da Varsavia. Lui ne parla come di una futura seconda Varsavia. Chiama la città ” Niepokalanow “: città dell’immacolata.

In pochi anni ecco descritta la prima realizzazione:

” Una vasta area libera per la costruzione di una grande basilica dell’immacolata,..

Un complesso-editoria (che comprendeva): la redazione, la biblioteca, la tipoteca, il laboratorio dei linotipisti, la zincografia con i gabinetti fotografici, le tipografie…, ed ancora i vari reparti della legatoria, dei depositi e delle spedizioni.

L’ala sinistra… comprendeva, in fabbricati distinti, la cappella, l’abitazione dei religiosi, il postulandato, il noviziato, la direzione generale, l’infermeria e, alquanto distanziata, la grande centrale elettrica. E poi, sparsi un po’ dovunque, le officine dei fabbri e dei meccanici, i laboratori per i falegnami, per i calzolai, per i sarti, nonché le grandi rimesse per i muratori e il corpo dei pompieri.

Ma non è ancora finito: c’erano il parco macchine, la piccola stazione ferroviaria con il binario di raccordo con quella pubblica e statale; previsto anche l’aeroporto con quattro velivoli e un progetto di stazione radio trasmittente.

Dovunque grossi tronchi d’albero, depositi di legname, tubi e materiale edilizio di vario genere “.

 

La capacità di Massimiliano Kolbe di trascinare gli altri dietro questo suo ideale cavalleresco è data da queste cifre: dopo una decina di anni o poco più a Niepokalanow vivono 762 religiosi: 13 sacerdoti, 18 chierici, 527 religiosi conversi, 122 giovani aspiranti sacerdoti, 82 giovani aspiranti religiosi conversi.

Quando Massimiliano Kolbe, tornando sacerdote da Roma, aveva rimesso piede in Polonia la Provincia francescana contava poco più di un centinaio di religiosi. I religiosi di Niepokalanow devono essere poverissimi ma avere a disposizione quanto di meglio c’è sul mercato: dall’aereo alle rotative ultimo modello.

I frati di Massimiliano sono capaci di tutto: dall’organizzare il corpo dei pompieri a prendere il brevetto di pilota, a studiare per diventare direttore d’orchestra in modo da poter curare personalmente la registrazione di dischi, a imparare i sistemi di regia cinematografica.

P. Massimiliano Kolbe che fonda, e dirige per i primi anni, questa enorme comunità, e ne resta sempre l’animatore, è descritto così:

” Era tenace, ostinato, implacabile… Era un calcolatore nato: calcolava e raffrontava senza posa, valutava, fissava, combinava bilanci e preventivi. Se ne intendeva di tutto: di motori, di biciclette, di linotype, di radio; conosceva quello che costava poco e quello che costava molto; sapeva dove, come e quando era opportuno comperare… Non c’era sistema di comunicazione troppo veloce per lui, il veicolo del missionario, diceva spesso, dovrebbe essere l’aereo ultimissimo modello “.

La vita dell’intera comunità, invece, da P. Massimiliano Kolbe è descritta e spiegata con queste parole:

” La nostra comunità ha un tono di vita un pochino eroico, quale è e deve essere Niepokalanow se veramente vuole conseguire lo scopo che si prefigge, vale a dire non solo di difendere la fede, di contribuire alla salvezza delle anime, ma con ardito attacco, non badando affatto a se stessi, conquistare all’immacolata un anima dopo l’altra, un avamposto dopo l’altro, inalberare il suo vessillo sulle case editoriali dei quotidiani, sulla stampa periodica e non periodica, sulle agenzie di stampa, sulle antenne radiofoniche, sugli istituti artistici e letterari, sui teatri, sulle sale cinematografiche, sui parlamenti, sui senati, in una parola dappertutto sulla terra; inoltre vigilare affinché nessuno mai riesca a rimuovere quei vessilli.

Allora cadrà ogni forma di socialismo, di comunismo, di eresie, gli ateismi, la massoneria e tutte le altre simili stupidaggini che provengono dal peccato… Così io mi immagino Niepokalanow “.

 

In questa nuova ” città ” sì stampano otto riviste per parecchie centinaia di migliaia di copie. (La maggiore tra esse, ” Il cavaliere dell’Immacolata “, tocca in quegli anni il milione di copie. P. Massimiliano prevede traduzioni in italiano, inglese, francese, spagnolo e latino).

Lui vi abiterà pochissimi anni. Già nel 1930 è in Giappone dove

fonda dal nulla una città analoga e la chiama ” Il giardino dell’immacolata “.

Un autore che è critico verso l’opera di Kolbe scrive:

” Mirava né più ne meno che a conquistare il mondo. Per questo andò a convertire i ‘pagani’ in Giappone; per questo ampliava incessantemente le sue editrici, fondava monasteri, sognava piani per estendere a tutto il mondo la Cavalleria dell’immacolata.

Tutte queste opere, concepite su scala gigantesca, le creò quasi dal nulla. Senza un soldo in tasca, questuando incessantemente col proverbiale saio rappezzato. Era un fenomeno di energia e di talento organizzativo. Intraprendeva ogni iniziativa letteralmente con le proprie mani. Mescolava la calce e portava i mattoni nel cantiere, lavorava alla cassa di composizione in tipografia. A Nagasaki intraprese l’edizione della versione locale de ‘Il Cavaliere dell’Immacolata’ senza sapere una parola di giapponese…”.

E durante l’edificazione della filiale giapponese ” dormiva in una soffitta coprendosi col cappotto “.

La sua Milizia dell’Immacolata, nel 1939, contava 800.000 iscritti.

” Noi, diceva P. Kolbe, abbracceremo il mondo intero” e aveva piani che riguardavano l’india e il mondo arabo.

Nel 1932, quando costruiva Niepokalanow decise che fosse piccolo un solo ambiente: il cimitero, perché diceva: ” prevedo che le ossa dei miei frati saranno disperse in tutto il mondo “.

Qual era dunque il suo ideale? Eccolo:

” Bisogna inondare la terra con un diluvio di stampa cristiana e mariana, in ogni lingua, in ogni luogo, per affogare nei gorghi della verità ogni manifestazione di errore che ha trovato nella stampa la più potente alleata; fasciare il mondo di carta scritta con parole dì vita per ridare al mondo la gioia di vivere “.

La teologia di P. Kolbe era radicale e senza mezzi termini. Ecco come la sintetizza un suo biografo:

 

” Si ostinò a credere, a dire, a scrivere che la verità è una sola, quindi un solo Dio, un solo Salvatore, una sola Chiesa; gli uomini, tutti gli uomini, di conseguenza, sono chiamati ad aderire ad un solo Dio, ad un solo Salvatore, ad una sola Chiesa.

A quell’ideale consacrò e immolò la sua vita di missionario della penna, come amava definirsi”. Questo fu l’uomo su cui si abbatté la furia nazista. Sapeva ciò che gli aspettava. Aveva tanti amici che lo avvertivano di tutto. La Gestapo gli fece sapere addirittura che avrebbe gradito una sua opzione per la cittadinanza germanica se si fosse iscritto nella lista degli oriundi tedeschi, dato il suo cognome e le sue origini (nonostante che il cognome della madre fosse evidentissimamente polacco).

Fu arrestato una prima volta assieme ad alcuni suoi frati.. Li confortava con queste parole: ” coraggio, andiamo in missione “. in un primo tempo là Città dell’Immacolata fu adibita a ospedale con un ufficio della Croce Rossa. Pian piano si riempiva di rifugiati e di scampati, accolse 2000 espulsi dalla Polonia e alcune centinaia di ebrei. I tedeschi cominciarono a considerarla come un campo di concentramento.

Liberato una prima volta, P. Kolbe riorganizzò la città per la sopravvivenza di tutti i rifugiati organizzando infermeria farmacia, ospedale, cucine, panetteria, orto e altri laboratori. il 17 febbraio 1941 viene arrestato per la seconda volta. Dice: ” Vado a servire l’immacolata in un altro campo di lavoro “. Il nuovo campo di lavoro è quello di Auschwitz. Tutta l’energia di questo uomo fisicamente fragilissimo (malato di tisi, con un solo polmone) è ora messa a confronto con la sofferenza più atroce. Una sofferenza che lo colpisce sistematicamente, come gli altri e più degli altri, perché appartiene al gruppo dei preti, quello che per odio e maltrattamenti è accomunato agli ebrei.

Diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio: un carro che doveva essere tirato sempre correndo. Ogni dieci metri una guardia con un bastone garantisce la persistenza del ritmo. Poi a tagliare e trasportare tronchi d’albero. A lui, perché prete, toccava un peso due o tre volte superiore a quello dei suoi compagni. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui. ” Non vi esponete a ricevere colpi per me. L’immacolata mi aiuterà, farò da solo “.

Quando lo vogliono portare all’ospedale del campo, se ne ha la forza, indica sempre qualcun altro che, a suo parere, ha più bisogno di lui: ” io posso aspettare. Piuttosto quello lì… “.

Quando lo mettono a trasportare cadaveri, spesso orrendamente mutilati, e ad accatastarli per l’incenerimento, lo sentono mormorare pian piano: ” Santa Maria prega per noi ” e poi: ” Et Verbum caro factum est ” (Il Verbo si è fatto carne).

Nelle baracche qualcuno la notte striscia verso di lui in preda all’orrore e si sente dire lentamente, pacatamente, come un balsamo: ” l’odio non è forza creativa; solo l’amore è forza creativa “.

Oppure parla, dell’immacolata: ” Ella è la vera consolatrice degli afflitti. Ascolta tutti, ascolta tutti! “. Gli ammalati lo chiamano: ” il nostro piccolo padre “.

Poi venne quel giorno in cui un detenuto del blocco 14 riuscì a Fuggire. Padre Kolbe era stato assegnato a quel blocco solo da pochi giorni. Per tre ore tutti i blocchi vennero tenuti sull’attenti. Alle 9, per la misera cena, le file vengono rotte. Il blocco 14 dovette stare immobile mentre il loro cibo veniva versato in un canale.

Il giorno dopo, il blocco rimase tutto il giorno allineato immobile, sulla piazza: guardati, percossi, digiuni, sotto il sole di luglio: distrutti dalla fame, dal caldo, dall’immobilità, dall’attesa terribile. Chi cadeva veniva gettato in un mucchio ai bordi del campo. Quando gli altri blocchi tornarono dal lavoro si procedette alla decimazione: per un prigioniero fuggito dieci condannati a morte nel bunker della fame. Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida. A un tratto il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di quell’uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell’istante.

Dobbiamo veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma tutti ricordano un particolare… Kolbe uscì dalla fila e si diresse diritto, ” a passo svelto ” verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che un prigioniero osasse tanto.

Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri.

P. Kolbe lo costrinse a ricordare che erano uomini, che avevano una identità. ” Che cosa vuole questo sporco polacco? “. ” Sono un sacerdote cattolico. Sono anziano (aveva 47 anni). Voglio prendere il suo posto perché lui ha moglie e figli “.

La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato.

Lo scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era costruito. Il campo di concentramento doveva essere la dimostrazione che ” l’etica della fratellanza umana ” era solo vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non erano ” umane “. Il principio umanitario secondo l’ideologia nazista era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo dì concentramento si dimostrava che l’umano è ciò che di più esterno c’è nell’uomo, una maschera che può essere levata a volontà.

” I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo ” (Szczepanski).

Che Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi il valore e l’efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza ma offerta volontaria. Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto non c’era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini del campo di concentramento.

Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un Calvario. E non mi riferisco a una immagine simbolica. Mi riferisco a una Messa.

Da quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla, nemmeno una goccia d’acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere e dagli inni sacri che P. Kolhe recitava ad alta voce. E dalle celle vicine gli altri condannati gli rispondevano.

” L’eco di quel pregare penetrava attraverso i muri, di giorno in giorno sempre più debole, trasformandosi in sussurro, spegnendosi insieme al respiro umano. Il campo tendeva l’orecchio a quelle preghiere. Ogni giorno la notizia che pregavano ancora faceva il giro delle baracche. L’intorpidito tessuto della solidarietà umana ricominciava a pulsare di vita. La morte che lentamente veniva consumata nei sotterranei del tredicesimo blocco non era la morte di vermi schiacciati nel fango. Era un dramma e rito. Era sacrificio di purificazione ” (Szczepanski).

La fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato.

Quando le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane; chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento.

P. Kolbe non chiedeva nulla non si lamentava, restava in fondo seduto, appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste mariane che Massimiliano amava di più: l’Assunta, a cui cantava sempre volentieri quella lauda popolare che dice: ” Andrò a vederla, un dì! “.

” Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai “.

Giovanni Paolo Il, predicando ad Auschwitz, ha detto:

” In questo luogo che fu costruito per la negazione della fede, della fede in Dio e della fede nell’uomo, e per calpestare radicalmente non soltanto l’amore ma tutti i segni della dignità umana, dell’umanità, quell’uomo (il P. Kolbe) ha riportato la vittoria mediante l’amore e la fede”.

P. Kolbe ha dimostrato, in forza della sua fede, che l’uomo può creare abissi di dolore ma non può evitare che essi siano inabitati dal Crocifisso e dal mistero del Suo amore sofferente, che si riattualizza, che autonomamente e con forza inarrestabile decide di farsi ” presene “. Fu soprattutto per questa decisione di Cristo che Fritsch, contro se stesso, dovette ” accettare ” lo scambio.

Due sono gli insegnamenti che ci restano contemplando il volto di P. Kolbe: uno torna dal suo martirio alla sua vita, l’altro va dalla sua vita al suo martirio.

Nel primo insegnamento P. Kolbe ci dice che rispondere alla disumanità con l’offerta e il sacrificio di sé non è la risposta di chi non sa fare altro, di chi si rassegna e cede all’oppressore, di chi attende tutto dall’al-di-là e perciò può subire.

P. Kolbe ha dato la vita, accettando di morire, dopo che aveva spese tutte le sue energie per la costruzione di un mondo diverso, di un mondo nuovo, di un centuplo quaggiù. Il martirio non fu una fuga devota. Fu la pienezza della sua energia vitale.

Nel secondo insegnamento P. Kolbe ci dice che la stoffa di cui sono fatti i martiri non è quella di chi nella sua vita si è divertito col pluralismo e con l’irenismo ad ogni costo, anche se li chiama ” dialogo ” ed ” ecumenismo “.

Esiste certamente un modo giusto di considerare questi valori (che è il modo della carità, non della perdita di identità), ma tante volte essi sono soltanto usati per preservarsi, per non dovere ” dare la vita “.

P. Kolbe definiva la fede con una nettezza impressionante, e con altrettanta decisione la propagandava e la voleva incarnare in tutti gli spazi della vita culturale e sociale; e seppe avere tanta carità da essere il primo ” martire della carità “. Proprio con questo titolo, mai utilizzato prima, è stato canonizzato da Giovanni Paolo lI

Ma chi, in nome di una pretesa carità cristiana, annacqua la fede e la rende culturalmente inincidente e irrilevante nella storia è sicuro d’avere proprio quella carità che abilita a dare la vita?

Questa è la domanda seria che discrimina tutti gli atteggiamenti dei cristiani e li giudica. La fede e la carità esigono, ambedue, forza e decisione, e crescono assieme con lo stesso coraggio.

 Tratto dal libro: RITRATTO DI SANTI di Antonio Sicari

 

San Giovanni Bosco

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Tutte le informazioni relative a San Giovanni Bosco sono state tratte da: “Vita di San Giovanni Bosco, Vol. I, II, Autore G.B. Lemoyne, Editrice SEI”.
Per rendere più agevole la lettura, il linguaggio originale del XIX secolo è stato rivisto.

Nato a Castelnuovo d’Asti il 16 agosto 1815 e deceduto a Torino il 31 gennaio 1888, Don Bosco fu un Santo prete plasmato secondo il cuore di Dio. Sin da fanciullo si senti chiamato dal Signore, attraverso sogni divini, ad essere l’apostolo della gioventù. In questo secolo già è tramontato il mito di Napoleone, ma sarà il tempo di moti risorgimentali, di rivoluzioni, di grandi turbamenti e d’industrializzazione, dove la Chiesa è considerata una nemica da opprimere.

Ha solo due anni quando muore suo padre e su sua madre cade il peso del sostentamento, Ella dovrà lottare con tutte le sue forze contro la carestia per tenere unita la famiglia ed dovrà trasmettere una solida fede a suo figlio. Fedele alla voce interiore che aveva udito: “Non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità devi guadagnare questi piccoli amici. Mettiti dunque a far loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità delle virtù”, il giovane Giovanni Bosco inizia ad istruire i compagni alla religione.

Gli stratagemmi come i racconti di storielle divertenti a sfondo morale, spettacoli di destrezza, giochi di prestigio erano particolarmente adatti per attirare i giovani accanto a sé. Terminato il divertimento, era solito dire: “Adesso vi sono ancora molte belle cose da vedere, ma prima recitiamo tutti insieme una preghiera!” e, dopo la preghiera, seguiva un piccolo commento al Vangelo domenicale. I giovani erano affascinati non solo dalla sua abilità, ma dalle buone maniere, dalla purezza d’animo e del suo carisma.

A sedici anni cominciò a frequentare la scuola del paese per completare l’istruzione elementare e un corso di lingua latina, successivamente proseguì gli studi sino alle classi ginnasiali. Possedeva un grande talento ed una memoria prodigiosa. Sfruttando le sue capacità, superò in un anno tre classi di studio per terminare questo ciclo all’età di diciotto anni con il massimo dei voti.

Dotato di una buona voce, imparò il canto, il violino e l’organo. Imparò il mestiere del sarto, del falegname e del fabbro. Sapeva recitare a memoria parte dei classici; quali: Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti, e classici latini Cicerone, Sallustio, Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio Flacco e molti altri.

All’età di venti anni Giovanni Bosco entra in seminario nel convento a Chieri e ci rimarrà per sei anni. I compagni conoscendo la sua sorprendente erudizione si facevano ripetere le lezioni, divenne l’amico, il consigliere, il servo, l’infermiere. In seminario lo chiamavano il “Padre” per la sua santità di vita. Nel mese di giugno del 1841 fu ordinato Sacerdote.

Terminati gli studi esce dal Seminario per entrare nel Convitto Ecclesiastico ubicato presso la Chiesa di San Francesco in Torino per studiare morale pratica, predicazione, francese, spagnolo, in parte l’inglese, e in questo luogo rimarrà per due anni. Inizia, in questo periodo, con un semplice catechismo l’opera degli Oratori, che nel tempo prosperò oltre ogni rosea aspettativa.

Ultimata la preparazione al Sacerdozio, coltiva intimamente il progetto di entrare nello stato religioso. Il suo Direttore Spirituale, Don Cafasso, lo blocca con queste parole: “Mio caro Don Bosco abbandonate ogni idea di vocazione religiosa … continuate la vostra opera a favore dei giovani. Questa e non altra è la volontà di Dio” Don Cafasso, illuminato da Dio, conosce la missione riservata da Dio per Don Bosco, chiamato a divenire l’apostolo della gioventù.

Inviato a Valdocco nella Pia Opera del Rifugio sposta, in questa sede, l’Oratorio. Passano due mesi e al Santo sono concesse due camere e una piccola Cappella presso l’Ospedaletto che lui dedicherà a San Francesco di Sales, questa fu la prima Chiesa dell’Oratorio.

L’attività di Don Bosco è instancabile; predica, confessa, pubblica opuscoli in difesa della religione. Va ricordato “Corona dei sette dolori di Maria”, “Il devoto dell’Angelo Custode”, “Cenni storici sulla vita di Luigi Comollo” suo grande amico poi portato agli onori degli altari, infine un compendio di “Storia Ecclesiastica e di Storia Sacra”.

Nel 1845 molti soldati Austriaci militano sotto la bandiera del Piemonte e per poterli assistere negli ospedali e confessarli, impara rapidamente tempo il tedesco. Frequenta le carceri e lì opera molte conversioni che ottiene con molte preghiere e sacrifici personali. Arriva inaspettata la notizia di chiudere l’Oratorio poiché i locali servono per dare alloggio ai Sacerdoti.

La Vergine Maria solleva dall’angoscia Don Bosco e attraverso una visione lo guida ad una nuova seppur transitoria sede. Chiede ed ottiene l’utilizzo della Cappella dei Molini per fare catechismo ai ragazzi. Nello stesso anno allestisce e pubblica: “Storia Ecclesiastica” che è una testimonianza della fede per la salvezza delle anime e del suo amore per il Papato.

Arriva ancora uno sfratto e la Vergine Maria, attraverso una visione, lo guida alla ricerca di una nuova sede. Così affitta tre camere e lì inizia il catechismo, forma scuole serali per i suoi duecento giovani, ma non c’è ancora pace. Per un presunto disturbo recato agli altri inquilini dello stabile viene cacciato.

Non trova altre case, così affitta un prato e lì raduna i giovani che nel frattempo erano cresciuti a quattrocento unità, confessa, recita il rosario, fornisce piccole colazioni e merende, li educa in canti religiosi, li porta a Messa nelle varie parrocchie. Questo assembramento attira l’attenzione della Questura che iniziò a sorvegliare Don Bosco, ma poi, con l’intervento delle pubbliche autorità, lo si sfratta nuovamente, tuttavia la meta definitiva si avvicina.

Come previsto da una ulteriore visione, gli venne offerto in affitto una casupola di un solo piano, una tettoia e una striscia di terreno, tutto in pessimo stato, ma ugualmente lo accettò. Qui si trasferisce nel mese di aprile nella solennità di Pasqua. In seguito costruisce una cappella dove, tra l’altro, teneva lezioni di catechismo.

In questa nuova località la salute di Don Bosco, già fragile, si aggrava ed i medici lo consigliano a prendersi un periodo di assoluto riposo, ma lui trova il tempo di comporre e pubblicare: “L’Enologo italiano”, il “Sistema metrico decimale”, e “Le sei domeniche e la novena in onore a S. Luigi Gonzaga”. Riprende l’attività dopo un paio di mesi ma, nel mese di luglio si ammala di bronchite con grave infiammazione e in breve tempo si trova in fin di vita.

I rimedi umani non lasciano nessuna speranza, allora i suoi giovani ricorrono a quelli del cielo. Divisi in squadre si alternano dal mattino alla sera nel Santuario della Consolata a pregare la Madonna affinché conservi in vita il loro amico e padre. Altri vegliavano in preghiera tutta la notte. Tanta mobilitazione ottiene dal Cielo la grazia della guarigione.

Dopo il periodo di convalescenza ritorna nel mese di novembre del 1846 all’Oratorio insieme a sua madre Margherita, con lei si stabilisce nella casa affittata a Valdocco. Nell’estrema povertà organizza catechismi, scuole serali per i ragazzi. Insegna musica e canto corale. Il comune di Torino è così meravigliato che assegna a Don Bosco un premio per l’incremento dato alla musica.

Nel 1847 istituisce la “Compagnia di San Luigi”. I giovani che desiderano aderire devono osservare i doveri del buon cristiano e accostarsi con frequenza ai Santi Sacramenti. Per combattere l’eresia, il Santo scrisse “Il Giovane provveduto” per promuovere il fondamento della religione e conservare la fede. Nella sua stanza da letto un fragore continuo non lo lasciava dormire, il fenomeno fu eliminato solo quando il Santo attaccò al muro della soffitta un quadro della Santissima Vergine.

Nello stesso anno, nel mese di aprile offre ai giovani orfani privi di tutto, un fienile da dormire e da mangiare. Da questo primo dormitorio prende sviluppo un’opera che darà assistenza a più di mille persone. Don Bosco elargisce pasti, esegue insieme alla sua mamma, lavori di riassetto, spacca la legna, pela patate e cucina.

Subisce un attentato; un farabutto gli spara per colpirlo a morte, ma il proiettile passando tra il braccio sinistro e le costole lo lascia illeso. Seguono altri attentati preparati dai suoi avversari che vogliono sopprimerlo per avvelenamento, coltello, aggressioni, ma invano.

Nell’anno successivo nascono violente sommosse politiche, Papa Pio IX fugge da Roma e si rifugia a Gaeta. Don Bosco per confutare gli errori dei nemici confeziona la seconda edizione della “Storia Ecclesiastica”. Il seminario di Torino viene chiuso e Don Bosco ospita alcuni Sacerdoti nel suo Oratorio. Nel 1849 per controbattere chi vilipendia la religione, pubblica un periodico religioso “L’amico della gioventù”. In questi tempi difficili molti Sacerdoti si recano da Lui per frequentare lezioni di Teologia Morale e prepararsi all’esame di confessione.

Tra il 1848 e il 1849 tutti i seminari sono chiusi per la guerra ed i seminaristi trovano ospitalità nell’Oratorio di Valdocco che rimane l’unico seminario attivo del Piemonte per venti anni. Tutte le spese sono a carico di Don Bosco. Nello stesso anno fonda l’opera “Obolo di San Pietro” per lenire la povertà di Pio IX esule a Gaeta.

Nel 1850 fonda la “Società di mutuo soccorso” nella quale i soci pagano ogni domenica un soldo e in caso di malattia ricevono in soccorso cinquanta centesimi al giorno fino al ristabilimento della salute. Nell’anno successivo confidando nella divina misericordia inizia ad erigere una chiesa, per ottenere l’aiuto materno della Vergine Maria si reca al Santuario della Madonna d’Oropa.

Nel 1852 esplode la Polveriera, ma la chiesa che lui sta costruendo, pur essendo vicina al tremendo scoppio, non subisce danni, La Madonna ha protetto questa importante opera che sarà terminata e benedetta due mesi dopo. Terminato questa attività, inizia i lavori per ampliare il Convitto. A lavoro quasi ultimato una parte del muro e una grossa colonna del fabbricato in costruzione crollano, commenta Don bosco: “Il diavolo non vuole che allarghi l’istituto e raccolga nuovi giovani, ma noi lo faremo a suo dispetto”, nonostante gli intoppi porta a termine i lavori l’anno successivo.

Passa un anno ed inizia una campagna contro la propaganda protestante con le “letture cattoliche”, sei in tutto che saranno raggruppati e ristampati nel 1882 sotto il nome: “Il cattolico nel secolo”.
Nel Convitto apre una scuola di cui Lui è il Maestro di calzolai, sarti, di legatori, e negli anni successivi, di legatori, falegnami, tipografi e cappellai.

Arriva a Torino, nell’anno 1854 il morbo del colera. Don Bosco si attiva assieme ai suoi giovani ad assistere gli infettati anche nei Lazzaretti, nonostante i molti morti, Lui ed i suoi collaboratori sono immuni al contagio.

Mentre il Governo prepara una legge per confiscare i beni della Chiesa, Don Bosco ha un sogno premonitore che annuncia grandi funerali a Corte e, attraverso uno scritto, avverte il Re. Il Re, mal consigliato, elude questi consigli e perde la madre Regina Maria Teresa, la moglie Regina Maria Adelaide, il figlio Principe Ferdinando di Savoia e il figlio Vittorio Emanuele, ma nonostante i lutti approva la legge. Nello stesso anno propone ai suoi aiutanti di fare il voto di carità e gli pone il nome: “Salesiani”.

Nel 1885 Don Bosco pubblica: “Storia d’Italia raccontata alla gioventù” che avrà in seguito trentuno edizioni. Il testo è talmente efficace che il Ministro della Pubblica Istruzione lo adotta come libro di testo nelle scuole pubbliche. Ampia l’Oratorio e in questi nuovi locali dà inizio alle prime tre classi ginnasiali sia per i giovani del Convitto sia per gli esterni, in seguito aprire anche una scuola elementare cattolica quotidiana diurna.

Si reca a Roma nel 1858, il Papa Pio IX lo esorta a fondare una “Pia Società” con il compito di portare avanti la sua preziosissima opera, gli concede pure, l’indulgenza plenaria da far fruttare solo nel momento in cui l’anima si separerà dal corpo.

Nel biennio 1859-1860 nell’Oratorio completa le cinque classi ginnasiali. Don Bosco, al diciottesimo anniversario della fondazione degli Oratori, invita i suoi collaboratori a iscriversi alla “Pia Società” alla quale pone il nome di “San Francesco di Sales”. così costituita l’assemblea prega Don Bosco di accettare e gradire la carica di “Superiore Maggiore”.

È sospettato di cospirazione politica. Un sogno lo avverte di una imminente perquisizione, così il Santo riesce a trasportare altrove quegli scritti che avrebbero potuto generare anche il minimo sospetto. La perquisizione minuziosa ebbe luogo ma nulla di compromettente fu trovato.

Nell’anno 1862 ben ventidue membri della nuova “Pia Società” fecero voti di povertà, carità e obbedienza. In quest’anno l’Oratorio dispone di una Chiesa, cinque classi ginnasiali, la scuola del calzolaio, del legatore, del fabbro ferraio, del tipografo, di musica vocale e strumentale. Mantiene le scuole aperte di domenica anche di sera. Gli allievi del Convitto sono circa seicento.

Nell’anno 1863 Don Bosco scrive al papa Pio IX di prepararsi a fare il sacrificio di Roma perché sarà in preda alla rivoluzione. Apre un istituto a Mirabello Monferrato intitolato: “Piccolo Seminario di San Carlo” Prima di scegliere il personale si reca al Santuario di Oropa per ricevere illuminazioni dalla Vergine Maria.

Nel 1864 Don Bosco ha una salute cagionevole, emette sangue dalla bocca e stenta a digerire il poco cibo giornaliero, tuttavia è gioioso e non smette di lavorare alacremente. Gestisce due istituti educativi, uno dei quali conta settecento alunni. Nel mese di ottobre apre un terzo istituto a Lanzo Torinese intitolato: “Collegio S. Filippo Neri”.

Nel 1865 posa la prima pietra per costruire un nuovo Santuario da dedicare a “Maria Ausiliatrice dei Cristiani” in Torino. Poi inizia un viaggio a Milano, Brescia, Padova, Venezia, Firenze, dove è accolto solennemente.

Nel 1866 si ripresenta il flagello della peste. Terminata la guerra contro l’Austria, inizia una tremenda persecuzione contro i vescovi. Don Bosco è interpellato dal Santo Padre per svolgere ufficiosamente le trattative tra lo Stato e la Chiesa. La Madonna non smette di moltiplicare le grazie di guarigione operate tramite Don Bosco per far ottenere al Santo il denaro per proseguire l’opera di edificazione del Santuario in costruzione.

Si reca nel 1867 nuovamente a Roma ed è accolto come un principe dalle facoltose famiglie romane. Narra Pietro Angelini: Da mattina a sera è assediato da una quantità immensa di persone di ogni grado, sesso e condizione, che desiderano vederlo e parlargli, per cui non ha mai un’ora fissa per pranzare, dormire, per riposarsi; La fama della sua santità è penetrata in tutte le case. Ormai la sua salute incomincia a soffrirne … credo che gli sarà necessario adottare un qualche serio provvedimento per non cadere ammalato.

Durante l’udienza, Papa Pio IX lo esorta a scrivere minuziosamente qualsiasi fatto soprannaturale che abbia come relazione l’Opera degli Oratori. Richiede il suo aiuto per comporre il conflitto con lo Stato determinato dalla grave situazione dei Vescovi in Italia, gli fa stilare una lista di candidati per la carica di Vescovo, infine lo invita ad aprire una Casa Salesiana a Roma.

Don Bosco avverte più volte il Santo Padre delle congiure segrete della massoneria che trama contro di Lui nella stessa Roma. Ad esempio lo avverte che alcuni cospiratori stanno scavando un cunicolo per porre una bomba sotto il Collegio Romano … subito non si crede ma dopo una attenta indagine si trova realmente il cunicolo.

Nel 1868 Don Bosco pubblica una voluminosa opera con il titolo: “Il cattolico provveduto”. Nel mese di giugno, ultima e consacra il tempio dedicato a “Maria Ausiliatrice”, una meravigliosa Chiesa costruita in solo tre anni. Fu un vero miracolo per la sua estrema povertà.

Nell’anno successivo il Santo Padre approva la “Pia Società”. Non si ferma l’opera letteraria di Don Bosco, pubblica e diffonde in tutta Italia i volumi “Biblioteca della Gioventù Italiana” che hanno lo scopo di divulgare la conoscenza dei classici italiani antichi e moderni. Per diffondere la devozione alla Beata Vergine, fonda nel Santuario di Voldocco: “L’Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice”.

Torna nel 1870 a Roma mentre si inaugura il Concilio Ecumenico Vaticano. Don Bosco conferma al Pontefice che è giunto il momento voluto dal Signore per dichiarare il dogma di fede sulla “Infallibilità Pontificia”.

Come previsto da Don Bosco con largo anticipo, Roma è conquistata, e mentre tutti della Corte Pontificia consigliano al Papa di abbandonare la città e cercare rifugio altrove Pio IX chiede consiglio a Don Bosco il quale risponde: “La sentinella, l’Angelo di Israele si fermi al suo posto, e stia a guardia della rocca di Dio e dell’arca santa”.

Nel 1872 fonda “Le Figlie di Maria Ausiliatrice”, il ramo femminile dei Salesiani con lo scopo di istruire ed educare le fanciulle. In quest’anno e in quello successivo torna a Roma per negoziare tra il Regno d’Italia e la Chiesa dopo l’intervento di Bismarch che in nome dell’imperatore della Prussia era intervenuto per sospenderli.

Nel 1874 dopo varie vicissitudini la “Pia Società di San Francesco di Sales” e le sue costituzioni sono approvate in via definita. Alla fine di quest’anno l’Opera si espande con più di cinquanta nuove fondazioni Salesiane in Italia, Asia, Africa e America.

Nel 1876 i ragazzi dell’Oratorio superano le ottocento unità. Si aprono nuove Case in Francia e America. Don Bosco fonda: “L’Opera di Maria Ausiliatrice” una istituzione utile a quegli adulti che desiderano abbracciare lo stato ecclesiastico; la “Pia Unione dei Cooperatori e delle Cooperatrici Salesiane”; infine, “L’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrici” che si espande rapidamente, infatti, dopo soli cinque anni conta duecento suore e dodici Case in Italia e Francia.

Nel 1878 pone la prima pietra in Corso Vittorio Emanuele in Torino per creare uno splendido tempio dedicato a “San Giovanni Evangelista”.

Nel 1880 Papa Leone XIII affida a Don Bosco la costruzione di un Tempio a Roma da dedicare al “S. Cuore di Gesù”, ma lo avverte di non avere denari. Don Bosco risponde: “Non chiedo denari ma solo la sua benedizione … edificherò, accanto alla Chiesa, un Oratorio festivo con un grande Ospizio, dove insieme possano essere accolti in convitto e avviati alle scuole e alle arti e mestieri tanti poveri giovani … “. Non solo Don Bosco accetta di costruire questa Chiesa in Roma ma accetta di costruirne una a La Spezia dedicata a “San Paolo”, un Ospizio a Marsiglia, una Casa del Noviziato a Nizza Monferrato. Naturalmente tutte le spese di costruzione sono a suo carico.

Nel 1882 si reca in Francia. Don Ronchail narra: “È impossibile descrivere l’entusiasmo che desta la sua presenza. Dal mattino alla sera è un accorrere di persone che vogliono vederlo”. Gli stessi giornali francesi scrivono: “Don Bosco è il taumaturgo del XIX secolo. Parigi è attonita per la commozione manifestatasi … è l’attrazione irresistibile che agita le folle … le chiese sono troppo strette per contenere i fedeli che vogliono ascoltare la Messa di Don Bosco. L’entusiasmo che desta Don Bosco a Parigi s’incontra nella vita di pochi Santi”. Nello stesso anno Don Bosco porta a termine i lavori della Chiesa “San Giovanni Evangelista” in Torino.

Nel 1884, comincia a scrivere il libro “Memorie” per terminarlo due anni dopo. Nei suoi numerosi viaggi si reca soprattutto in Francia per raccogliere fondi per l’Oratorio, ovunque si ringrazia la Vergine Maria per le grazie ricevute.
Ritorna il morbo del colera e Don Bosco, insieme ai Salesiani, apre le sue strutture per accogliere e curare gli ammalati. Scrivono i giornali dell’epoca: “Il popolo pronuncia il nome di Don Bosco con venerazione e bacia il lembo delle sue vesti”.

Nel 1886 si reca in Spagna e in questa nazione è accolto con tripudio. In questa terra Don Bosco opera grandi prodigi. Nell’anno successivo si reca a Roma per consacrare la Chiesa dedicata al “Sacro Cuore di Gesù” che ha ultimato.

Muore nel 1888 ammalato ed esausto dopo per aver profuso tutte le sue energie.

San Gabriele dell’Addolorata

San Gabriele dell'Addolorata

San Gabriele dell’Addolorata è uno dei santi più popolari del mondo. Il suo santuario ai piedi del Gran Sasso d’Italia (Teramo) ogni anno è ambita meta di pellegrinaggio per milioni di devoti. Metà umbro per via del padre avvocato Sante Possenti e metà marchigiano per le origini della mamma Agnese Frisciotti, ogni abruzzese lo ritiene talmente tutto suo che farebbe a pezzettini chiunque osasse avanzare dei dubbi.

Nato ad Assisi il 1° marzo 1838, la sera stessa fu battezzato nella cattedrale di san Rufino che sette secoli prima aveva accolto l’illustre concittadino san Francesco. Era quasi inevitabile che ne ereditasse anche il nome. Gabriele infatti è il nome d’arte scelto al momento di farsi religioso, ma all’anagrafe è registrato Francesco Possenti, Checchino per familiari e amici.

Ben presto conosce l’asprezza del vivere perché a quattro anni è già orfano di madre. Nel frattempo il padre, integerrimo governatore dello stato pontificio, ha già lasciato Assisi e si è trasferito con tutta la patriarcale famiglia nella prestigiosa sede di Spoleto (Perugia) dove Gabriele trascorre l’infanzia e l’adolescenza fino a diciotto anni. Cresce volitivo e vivace scorrazzando con i fratelli per le ampie sale del palazzo finché non va a spiaccicarsi il nasino contro una porta.
Impara a pregare, ma non manca di dare anche qualche grattacapo al padre che a stento riesce a frenarne l’esuberanza. Si dimostra sensibile soprattutto con i poveri ai quali non esita ad allungare la merendina o l’intero marsupio scucito al padre. Primeggia a scuola per intelligenza, diventa leader di tutte le imprese goliardiche coinvolgendo negli scherzi anche i professori che nelle recite gli affidano sempre il ruolo del protagonista.

Frequenta salottiteatro jet set sempre attillato all’ultima moda. Viene soprannominato il ballerino o il damerino elegante. Però non scende mai a compromessi morali, non tollera intrallazzi o scostumatezze, di fronte alle avances di un balordo fa roteare per aria un coltellaccio a serramanico. Sotto l’elegante abbigliamento qualche volta cinge il cilicio, è capace di passare dal teatro alla chiesa.
Naturalmente anche per lui arriva il tempo delle mele. Bello e seducente, è tampinato soprattutto dalla figlia dell’avvocato Pennacchietti e Gabriele non pare insensibile alle sue attenzioni. Però ogni tanto si ritrova incasinato perché un campanello d’allarme gli ricorda che la vita non è tutta rose e fiori. Gli eventi stanno precipitando, sorella morte sta sgretolando la numerosa famiglia con ricorrenti lutti.
Gabriele sussulta e finisce quasi per smarrire le coordinate. Qui ci vuole un monitoraggio. Torna a mulinare con insistenza per la testa un vecchio progetto, quello di consacrarsi totalmente a Dio nella vita religiosa. Una promessa già fatta la prima volta a dodici anni nel delirio di un febbrone e rinnovata di fronte ad ogni pericolo, scongiurato il quale la routine aveva sempre ripreso il sopravvento.

A rompere gli indugi si incarica la Madonna stessa durante la processione della sacra icona per le vie di Spoleto. E’ il 22 agosto 1856 e Gabriele, in ginocchio tra la folla, avverte che l’immagine si anima, gli occhi della Madonna diventano lame scintillanti e una voce risuona chiarissima nel cuore: “Ancora non capisci che questa vita non è fatta per te? Segui la tua vocazione“. Colpo fatale che mette fine a tutti i tentennamenti. Superando inenarrabili difficoltà, quindici giorni dopo è già nel noviziato dei passionisti a Morrovalle, in provincia di Macerata. Nessuno riuscì a trattenerlo. E da quell’istante fu tutta una corsa, una volata da internauta verso la meta.

San Gabriele e p.Norberto

San Gabriele e p.Norberto

Ha diciotto anni e mezzo. La scelta della vita religiosa è radicale e irrevocabile. Bacia piangendo di commozione la nuova veste scura e ruvida, uno schiaffo al look del damerino che si pavoneggiava per le vie di Spoleto. Ha trovato finalmente la sua felicità. Ne informa ripetutamente i familiari: “La mia vita è una continua gioia; la contentezza che provo dentro queste sacre mura è quasi indicibile; le 24 ore della giornata mi sembrano 24 brevi istanti; davvero la mia vita è piena di gioia“. Il papaGiovanni Paolo II durante la sua visita al santuario nel 1985 confermò che “la gioia cristiana è la nota caratteristica di san Gabriele“.

Le tappe della santità senza gesta clamorose, con una vita semplice contrassegnata dall’eroicità nel quotidiano e struggente devozione alla Madonna Addolorata. Vuole strappare dal cuore ogni minuzia che non palpita esclusivamente per il Signore. Il suo direttore spirituale, il venerabile Norberto Cassinelli, potrà affermare: “Questo ragazzo ha lavorato con il cuore“.

Passa gli ultimi due anni e mezzo sempre ritirato nel conventino sperduto ai piedi del Gran Sasso tra ascensioni spirituali e lavorio interiore le cui profondità sono note unicamente a Dio. Solo qualche sortita all’aria aperta tanto per illudere i polmoni già minati dalla tubercolosi, il male sottile che presto lo condurrà alla tomba. Ma per lui è una festa e si lancia verso il rush finale invocando la Madonna: “Mamma mia, fa’ presto“.

Così la mattina del 27 febbraio 1862, al sorgere del sole, con il volto trasognato e gli occhi sfavillanti che trafiggono un punto fisso sulla parete sinistra, senza agonia sorride alla Madonna che viene a incontrarlo. Ha 24 anni, ancora studente in attesa dell’ordinazione sacerdotale. Ma ha già varcato la soglia per celebrare la messa perenne nel rutilante spettacolo dell’eternità in Dio.

La sua fama cominciò nel 1892 quando a trent’anni dalla morte si verificarono i primi strepitosi miracoli tra la gente accorsa in massa alla ricognizione delle spoglie. Beatificato da san Pio X nel 1908, fu proclamato santo da Benedetto XV nel 1920 alla presenza di oltre quaranta cardinali, trecento vescovi e un’incalcolabile moltitudine convenuta da ogni parte del mondo. Nel 1926 Pio XI lo dichiara compatrono della gioventù cattolica italiana e nel 1959 San Giovanni XXIII lo proclama patrono principale d’Abruzzo.

Padre Pio da Pietrelcina

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Padre Pio de Pietrelcina
(Francesco Forgione)
23 settembre

Erede spirituale di San Francesco d’Assisi, Padre Pio da Pietrelcina è stato il primo sacerdote a portare impressi sul suo corpo i segni della crocifissione.
Già noto al mondo come il “Frate stigmatizzato”, Padre Pio, al quale il Signore aveva donato particolari carismi, si adoperò con tutte le sue forze per la salvezza delle anime. Le moltissime testimonianze dirette della “santità” del Frate, arrivano sino ai nostri giorni, accompagnate da sentimenti di gratitudine.
Le sue intercessioni provvidenziali presso Dio furono per molti uomini causa di guarigione nel corpo e motivo di rinascita nello Spirito. 

Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, nacque a Pietrelcina, un piccolo paese del beneventano, il 25 maggio 1887. Venne al mondo in casa di gente povera dove il papà Grazio Forgione e la mamma Maria  padrepio2.jpg (5839 byte)Giuseppa Di Nunzio avevano accolto già altri figli. Fin dalla tenera età Francesco sperimentava in se il desiderio di consacrarsi totalmente a Dio e questo desiderio lo distingueva dai suoi coetanei. Tale “diversità” fu oggetto di osservazione da parte dei suoi parenti e dei suoi amici. Raccontava mamma Peppa – “non commetteva nessuna mancanza, non faceva capricci, ubbidiva sempre a me e a suo padre, ogni mattina ed ogni sera si recava in chiesa a visitare Gesù e la Madonna. Durante il giorno non usciva mai con i compagni. Qualche volta gli dicevo: “Francì esci un pò a giocare. Egli si rifiutava dicendo: “non ci voglio andare perché essi bestemmiano“.
Dal diario di Padre Agostino da San Marco in Lamis, che fu uno dei direttori spirituali di Padre Pio, si venne a sapere che Padre Pio, fin dal 1892, quando aveva solo cinque anni, viveva già le sue prime esperienze carismatiche. Estasi ed apparizioni erano così frequenti che il bambino le riteneva assolutamente normali.

Con il passare del tempo poté realizzarsi quello che per Francesco era il più grande sogno: consacrare totalmente la vita al Signore. Il 6 gennaio 1903, a sedici anni, entrò come chierico nell’Ordine dei Cappuccini e fu ordinato sacerdote nel Duomo di Benevento, il 10 agosto 1910.
Ebbe così inizio la sua vita sacerdotale che a causa della sue precarie condizioni di salute, si svolgerà dapprima in diversi conventi del beneventano, dove fra Pio fu inviato dai suoi superiori per favorirne la guarigione, poi, a partire dal 4 settembre 1916, nel convento di San Giovanni Rotondo, sul Gargano, dove, salvo poche e brevi interruzioni, rimase fino al 23 settembre 1968, giorno della sua nascita al cielo.

In questo lungo periodo, quando eventi di particolare importanza non modificavano la quiete conventuale, Padre Pio dava inizio alla sua giornata svegliandosi prestissimo, molto prima dell’alba, cominciando con la preghiera di preparazione alla Santa Messa. Successivamente scendeva in chiesa per la celebrazione dell’Eucarestia al quale seguivano il lungo ringraziamento e la preghiera sul matroneo davanti a Gesù Sacramentato, infine le lunghissime confessioni.

Uno degli eventi che segnarono profondamente la vita del Padre fu quello verificatosi la mattina del 20 settembre 1918, quando, pregando davanti al Crocifisso del coro della vecchia chiesina, ricevette il dono delle stimmate, visibili; che rimasero aperte, fresche e sanguinanti, per mezzo secolo.
Questo fenomeno straordinario catalizzò, su Padre Pio l’attenzione dei medici, degli studiosi, dei giornalisti ma soprattutto della gente comune che, nel corso di tanti decenni si recò a San Giovanni Rotondo per incontrare il “Santo” frate.

In una lettera a Padre Benedetto, datata 22 ottobre 1918, lo stesso Padre Pio racconta della sua “crocifissione”:
“…cosa dirvi di ciò che mi dimandate del come si è avvenuta la mia crocifissione? Mio Dio che confusione e che umiliazione io provo nel dover manifestare ciò che Tu hai operato in questa tua meschina creatura! Era la mattina del 20 dello scorso mese (settembre) in coro, dopo la celebrazione della Santa Messa, allorché venni sorpreso dal riposo, simile ad un dolce sonno. Tutti i sensi interni ed esterni, non che le stesse facoltà dell’anima si trovarono in una quiete indescrivibile. In tutto questo vi fu totale silenzio intorno a me e dentro di me; vi subentrò subito una gran pace ed abbandono allacompleta privazione del tutto e una posa nella stessa rovina, tutto questo avvenne in un baleno. E mentre tutto questo si andava operando; mi vidi dinanzi un misterioso personaggio; simile a quello visto la sera del 5 agosto, che differenziava in questo solamente che aveva le mani ed i piedi ed il costato che grondava sangue. La sua vista mi atterrisce; ciò che sentivo in quell’istante in me non saprei dirvelo. Mi sentivo morire e sarei morto se il Signore non fosse intervenuto a sostenere il cuore, il quale me lo sentivo sbalzare dal petto. La vista del personaggio si ritira ed io mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue. Immaginate lo strazio che sperimentai allora e che vado esperimentando continuamente quasi tutti i giorni. La ferita del cuore gitta assiduamente del sangue, specie dal giovedì a sera sino al sabato.
Padre mio, io muoio di dolore per lo strazio e per la confusione susseguente che io provo nell’intimo dell’anima. Temo di morire dissanguato, se il Signore non ascolta i gemiti del mio povero cuore e col ritirare da me questa operazione…
.”

Per anni, quindi, da ogni parte del mondo, i fedeli si recarono da questo sacerdote stigmatizzato, per ottenere la sua potente intercessione presso Dio.
Cinquant’anni vissuti nella preghiera, nell’umiltà, nella sofferenza e nel sacrificio, dove per attuare il suo amore, Padre Pio realizzò due iniziative in due direzioni: una verticale verso Dio, con la costituzione dei “Gruppi di preghiera”, l’altra orizzontale verso i fratelli, con la costruzione di un moderno ospedale: “Casa Sollievo della Sofferenza”.
Nel settembre del 1968 migliaia di devoti e figli spirituali del Padre si radunarono in convegno a San Giovanni Rotondo per commemorare insieme il 50° anniversario delle stigmate e celebrare il quarto convegno internazionale dei Gruppi di Preghiera.
Nessuno avrebbe immaginato invece che alle 2.30 del 23 settembre 1968 avrebbe avuto termine la vita terrena di Padre Pio da Pietrelcina.

Santa Brigida di Svezia

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Santa Brigida di Svezia

Religiosa, fondatrice

23 luglio

Nel tardo Medioevo, sia in campo civile che in quello ecclesiastico, gli uomini si dilaniavano in lotte intestine, provocando guerre tra gli Stati e scismi nella Chiesa e mettendo a rischio la stessa sopravvivenza della civiltà cristiana, davanti al pericolo sempre incombente dei musulmani.
Dio allora suscitò donne come santa Brigida di Svezia e santa Caterina da Siena, contemporanee, che con il loro carisma cercarono di pacificare gli animi e di ricostruire l’unità della Chiesa, dando un contributo, sotto certi aspetti determinante, alla civiltà europea.
E giustamente sia s. Brigida patrona della Svezia (1303-1373), sia s. Caterina da Siena compatrona d’Italia (1347-1380), sono state proclamate compatrone dell’Europa, insieme a s. Benedetto da Norcia (470-547).

Sue origini e formazione
Brigida o Brigitta o Birgitta, nacque nel giugno 1303 nel castello di Finsta presso Uppsala in Svezia; suo padre Birgen Persson era ‘lagman’, cioè giudice e governatore della regione dell’Upplan, la madre Ingeborga era anch’essa di nobile stirpe.
In effetti Brigida apparteneva alla nobile stirpe dei Folkunghi e discendeva dal pio re cristiano Sverker I; ebbe altri sei fratelli e sorelle e le fu imposto il nome di Brigida, in onore di santa Brigida Cell Dara († 525), monaca irlandese, della quale i genitori erano devoti.
Dopo la morte della madre, a 12 anni fu mandata presso la zia Caterina Bengtsdotter, a completare la propria formazione; ancora fanciulla, Brigida dopo aver ascoltato una predica sulla Passione di Gesù, ebbe con Lui un profondo colloquio che le rimase impresso per sempre nella memoria.
Alla domanda: “O mio caro Signore, chi ti ha ridotto così?”, si sentì rispondere: “Tutti coloro che mi dimenticano e disprezzano il mio amore!”. La bambina decise allora di amare Gesù con tutto il cuore e per sempre.
Presso la zia, Brigida trascorse due anni, dove apprese le buone maniere delle famiglie nobili, la scrittura e l’arte del ricamo; durante questi anni non mancarono nella sua vita alcuni fenomeni mistici, come la visione del demonio sotto forma di mostro dai cento piedi e dalle cento mani.

Sposa e madre cristiana
A 14 anni, secondo le consuetudini dell’epoca, il padre la destinò in sposa del giovane Ulf Gudmarsson figlio del governatore del Västergötland; in verità Brigida avrebbe voluto consacrarsi a Dio, ma vide nella disposizione paterna la volontà di Dio e serenamente accettò.
Le nozze furono celebrate nel settembre 1316 e la sua nuova casa fu il castello di Ulfasa, presso le sponde del lago Boren; il giovane sposo, nonostante il suo nome, che significava ‘lupo’, si dimostrò invece uomo mite e desideroso di condurre una vita conforme agli insegnamenti evangelici.
Secondo quanto scrisse e raccontò poi la figlia s. Caterina di Svezia, al processo di canonizzazione, i due sposi vissero per un biennio come fratello e sorella nella preghiera e nella mortificazione; soltanto tre anni dopo nacque la prima figlia e in venti anni Brigida diede al marito ben otto figli, quattro maschi (Karl, Birger, Bengt e Gudmar) e quattro femmine (Marta, Karin, Ingeborga e Cecilia).
Nel 1330 il marito Ulf Gudmarsson fu nominato “lagman” di Närke e successivamente i due coniugi divennero anche Terziari Francescani; dietro questa nomina, c’era tutto l’impegno di Brigida, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere e Ulf approfittando della spinta culturale della moglie, aveva approfondito anche lo studio del diritto, meritando tale carica.
Per venti anni Ulfasa fu il centro della vita di Brigida e tutta la provincia dell’Ostergötland divenne il suo mondo, il suo ruolo non fu solo quello di principessa di Närke, ma senza ostentare alcuna vanagloria, fu una ottima massaia, dirigeva il personale alle sue dipendenze, mescolata ad esso svolgeva le varie attività domestiche, instaurando un benefico clima di famiglia.
Si dedicava particolarmente ai poveri e alle ragazze, procurando a quest’ultime una onesta sistemazione per non cadere nella prostituzione; inoltre fece costruire un piccolo ospedale, dove ogni giorno si recava ad assistere gli ammalati, lavandoli e rammendando i loro vestiti.
In questo intenso periodo, conobbe il maestro Matthias, uomo esperto in Sacra Scrittura, di vasta cultura e zelante sacerdote; ben presto divenne il suo confessore e si fece tradurre da lui in svedese, buona parte della Bibbia per poterla leggere e meditare meglio; la sua presenza apportò a Brigida la conoscenza delle correnti di pensiero di tutta l’Europa, giacché don Matthias aveva studiato a Parigi, e tutto ciò si rivelerà utile per la conoscenza delle problematiche del tempo, preparandola alla sua futura missione.

Alla corte reale di Svezia
Quando però nel 1335, il re di Svezia Magnus II sposò Bianca di Dampierre, Brigida che era lontana cugina del sovrano, fi invitata a stabilirsi a corte, per ricevere ed assistere la giovane regina, figlia di Giovanni I, conte di Namur.
L’invito non si poteva respingere e quindi Brigida affidati due figlie e un figlio a monasteri cistercensi, lasciò temporaneamente la sua casa di Ulfasa e si trasferì a Stoccolma, portando con sé il figlio più piccolo, bisognoso ancora delle cure materne.
Ebbe grande influenza sui giovani sovrani e finché fu ascoltata, la Svezia ebbe buone leggi e furono abolite ingiuste ed inumane consuetudini, come il diritto regio di rapina su tutti i beni dei naufraghi, inoltre furono mitigate le tasse che opprimevano il popolo.
Poi man mano, mentre la regina cresceva, manifestando una eccessiva frivolezza favorita dalla debolezza del marito, Brigida si trovò messa da parte e la vita di corte divenne molto mondana.
A questo punto, senza rompere i rapporti con i sovrani, approfittando di momenti propizi e del lutto che l’aveva colpita con la morte nel 1338 del figlio Gudmar, Brigida lasciò la corte e se ne ritornò a casa sua, ritrovando nel castello di Ulfasa nella Nericia, la gioia della famiglia e della convivenza e con il marito si recò in pellegrinaggio a Nidaros per venerare le reliquie di sant’Olav Haraldsson (995-1030) patrono della Scandinavia.

Dalla vita coniugale allo stato religioso – L’esperienza mistica
Quando nel 1341 i due coniugi festeggiarono le nozze d’argento, vollero recarsi in pellegrinaggio a Santiago di Compostella; quest’evento segnò una svolta decisiva nella vita dei due coniugi, che già da tempo vivevano vita fraterna e casta.
Nel viaggio di ritorno, Ulf fu miracolosamente salvato da sicura morte grazie ad un prodigio e i due coniugi presero la decisione di abbracciare la vita religiosa, era una cosa possibile in quei tempi e parecchi santi e sante provengono da questa scelta condivisa.
Al ritorno, Ulf fu accolto nel monastero cistercense di Alvastra, dove poi morì il 12 febbraio 1344 assistito dalla moglie; Brigida a sua volta, avendo esaurito la sua missione di sposa e di madre, decise di trasferirsi in un edificio annesso al monastero di Alvastra, dove restò quasi tre anni fino al 1346.
Fu l’inizio del periodo più straordinario della sua vita; dopo un periodo di austerità e di meditazione sui divini misteri della Passione del Signore e dei dolori e glorie della Vergine, cominciò ad avere le visioni di Cristo, che in una di queste la elesse “sua sposa” e “messaggera del gran Signore”; iniziò così quello straordinario periodo mistico che durerà fino alla sua morte.
Ai suoi direttori spirituali come il padre Matthias, Brigida dettò le sue celebri “Rivelazioni”, sublimi intuizioni e soprannaturali illuminazioni, che ella conobbe per tutta la vita e che furono poi raccolte in otto bellissimi volumi.

Stimolatrice di riforme e di pace in Europa
Durante le visioni, Cristo la spingeva ad operare per il bene del Paese, dell’Europa e della Chiesa; non solo tornò a Stoccolma per portare personalmente al re e alla regina “gli ammonimenti del Signore”, ma inviò lettere e messaggi ai sovrani di Francia e Inghilterra, perché terminassero l’interminabile ‘Guerra dei Cent’anni’ (1339-1453).
Suoi messaggeri furono mons. Hemming, vescovo di Abo in Finlandia e il monaco Pietro Olavo di Alvastra; un altro monaco omonimo divenne suo segretario.
Esortò anche papa Clemente VI a correggersi da alcuni gravi difetti e di indire il Giubileo del 1350, inoltre di riportare la Sede pontificia da Avignone a Roma.

La fondazione del nuovo Ordine religioso
Nella solitudine di Alvastra, concepì anche l’idea di dare alla Chiesa un nuovo Ordine religioso che sarà detto del Santo Salvatore, composto da monasteri ‘doppi’, cioè da religiosi e suore, rigorosamente divisi e il cui unico punto d’incontro era nella chiesa per la preghiera in comune; ma tutti sotto la guida di un’unica badessa, rappresentante la Santa Vergine e con un confessore generale.
Ottenuto dal re, il 1° maggio 1346, il castello di Vadstena, con annesse terre e donazioni, Brigida ne iniziò i lavori di ristrutturazione, che durarono molti anni, anche perché papa Clemente VI non concesse la richiesta autorizzazione per il nuovo Ordine, in ottemperanza al decreto del Concilio Ecumenico Lateranense del 1215, che proibiva il sorgere di nuovi Ordini religiosi.
Per questo già nell’autunno del 1349, Brigida si recò a Roma, non solo per l’Anno Santo del 1350, ma anche per sollecitare il papa, quando sarebbe ritornato a Roma, a concedere l’approvazione, che fu poi concessa solo nel 1370 da papa Urbano V.
L’Ordine del Ss. Salvatore, era costituito ispirandosi alla Chiesa primitiva raccolta nel Cenacolo attorno a Maria; la parte femminile era formata da 60 religiose e quella maschile da 25 religiosi, di cui 13 sacerdoti a ricordo dei 12 Apostoli con s. Paolo e 2 diaconi e 2 suddiaconi rappresentanti i primi 4 Padri della Chiesa e otto frati.
Riassumendo, ogni comunità doppia era composta da 85 membri, dei quali 60 suore che con i 12 monaci non sacerdoti rappresentavano i 72 discepoli, più i 13 sacerdoti come sopra detto.
Il gioco di numeri, rientrava nel gusto del tempo per il simbolismo, rappresentare gli apostoli e i discepoli, spingeva ad un richiamo concreto a vivere come loro erano vissuti; senza dimenticare che in quell’epoca non esisteva crisi vocazionale e ciò permetteva di raggiungere senza difficoltà il numero di monache e religiosi prescritto per ogni doppio monastero.

Roma sua seconda patria
Arrivata a Roma insieme al confessore, al segretario Pietro Magnus e al sacerdote Gudmaro di Federico, alloggiò brevemente nell’ospizio dei pellegrini presso Castel Sant’Angelo, e poi nel palazzo del cardinale Ugo Roger di Beaufort, fratello del papa, che vivendo ad Avignone, aveva deciso di metterlo a disposizione di Brigida, la cui fama era giunta anche alla Curia avignonese.
Roma non fece una buona impressione a Brigida, ne migliorò in seguito; nei suoi scritti la descriveva popolata di rospi e vipere, le strade piene di fango ed erbacce, il clero avido, immorale e trascurato.
Si avvertiva fortemente la lontananza da tanto tempo del papa, al quale descriveva nelle sue lettere la decadente situazione della città, spronandolo a ritornare nella sua sede, ma senza riuscirci.
Vedere l’Europa unita e in pace, governata dall’imperatore e guidata spiritualmente dal papa, era il sogno di Brigida e dei grandi spiriti del suo tempo.
Dopo quattro anni, si trasferì poi nella casa offertale nel suo palazzo, dalla nobildonna romana Francesca Papazzurri, nelle vicinanze di Campo de’ Fiori; Roma divenne così per Brigida la sua seconda patria.
Trascorreva le giornate studiando il latino, dedicandosi alla preghiera e alle pratiche di pietà, trascrivendo in gotico le visioni e le rivelazioni del Signore, che poi passava subito al suo segretario Pietro Olavo perché le traducesse in latino.
Dalla dimora di Campo de’ Fiori, che abiterà fino alla morte, inviava lettere al papa, ai reali di Svezia, alle regine di Napoli e di Cipro e naturalmente ai suoi figli e figlie rimasti a Vadstena.

Apostola riformatrice in Italia
Si spostò in pellegrinaggio a vari santuari del Centro e Sud d’Italia, Assisi, Ortona, Benevento, Salerno, Amalfi, Gargano, Bari; nel 1365 Brigida andò a Napoli dove fu artefice e ispiratrice di una missione di risanamento morale, ben accolta dal vescovo e dalla regina Giovanna che seguendo i suoi consigli, operò una radicale conversione nei suoi costumi e in quelli della corte.
Napoli ha sempre ricordato con venerazione la santa del Nord Europa, e a lei ha dedicato un bella chiesa e la strada ove è situata nel centro cittadino; recentemente le sue suore si sono stabilite nell’antico e prestigioso Eremo dei Camaldoli che sovrasta Napoli.
Brigida, si occupò anche della famosa abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, vicino Roma, dove l’abate con i monaci “amava più le armi che il claustro”, ma il suo messaggio di riforma non fu ascoltato da essi.
Mentre era ancora a Farfa, fu raggiunta dalla figlia Caterina (Karin), che nel 1350 era rimasta vedova e che rimarrà al suo fianco per sempre, condividendo in pieno l’ideale della madre.
Ritornata a Roma, Brigida continuò a lanciare richiami a persone altolocate e allo stesso popolo romano, per una vita più cristiana, si attirò per questo pesanti accuse, fino ad essere chiamata “la strega del Nord” e a ridursi in estrema povertà, e lei la principessa di Nericia, per poter sostenere sé stessa e chi l’accompagnava, fu costretta a chiedere l’elemosina alla porta delle chiese.

Il ritorno temporaneo del papa – Pellegrina in Terra Santa
Nel 1367 sembrò che le sue preghiere si avverassero, il papa Urbano V tornò da Avignone, ma la sua permanenza a Roma fu breve, perché nel 1370 ripartì per la Francia, nonostante che Brigida gli avesse predetto una morte precoce se l’avesse fatto; infatti appena giunto ad Avignone, il 24 settembre 1370 il papa morì.
Durante il breve periodo romano, Urbano V concesse la sospirata approvazione dell’Ordine del Ss. Salvatore e Caterina di Svezia ne diventò la prima Superiora Generale.
Brigida continuò la sua pressione epistolare, a volte molto infuocata, anche con il nuovo pontefice Gregorio XI, che già la conosceva, affinché tornasse il papato a Roma, ma anche lui pur rimanendo impressionato dalle sue parole, non ebbe il coraggio di farlo.
Ma anche Brigida, ormai settantenne, si avviava verso la fine; ottenuto il via per il suo Ordine religioso, volle intraprendere il suo ultimo e più desiderato pellegrinaggio, quello in Terra Santa.
L’accompagnavano il vescovo eremita Alfonso di Jaén custode delle sue ‘Rivelazioni’ messe per iscritto, di cui molte rimaste segrete, poi i due sacerdoti Olavo, Pietro Magnus e i figli Caterina, Birger e Karl e altre quattro persone, in totale dodici pellegrini.
Verso la fine del 1371, la comitiva partì da Roma diretta a Napoli, dove trascorse l’inverno; in prossimità della partenza, nel marzo 1372 Brigida vide morire di peste il figlio Karl, ma non volle annullare il viaggio e dopo aver pregato per lui e provveduto alla sepoltura, s’imbarcò per Cipro, dove fu accolta dalla regina Eleonora d’Aragona, che approfittò del suo passaggio per attuare una benefica riforma nel suo regno.
A maggio 1372 arrivò a Gerusalemme, dove in quattro mesi poté visitare e meditare nei luoghi della vita terrena di Gesù, poi ritornò a Roma col cuore pieno di ricordi ed emozioni e subito inviò ad Avignone il vescovo Alfonso di Jaén, con un’ulteriore messaggio per il papa, per sollecitarne il ritorno a Roma.

Morte, eredità spirituale, culto
A Gerusalemme, Brigida contrasse una malattia, che in fasi alterne si aggravò sempre più e in breve tempo dal suo ritorno a Roma, il 23 luglio 1373, la santa terminò la sua vita terrena, con accanto la figlia Caterina alla quale aveva affidato l’Ordine del Ss. Salvatore; nella sua stanza da letto si celebrava l’Eucaristia ogni giorno e prima di morire ricevette il velo di monaca dell’Ordine fa lei fondato.
Unico suo rimpianto era di non aver visto il papa tornare a Roma definitivamente, cosa che avverrà poco più di tre anni dopo, il 17 gennaio 1377, per mezzo di un’altra donna s. Caterina da Siena, che continuando la sua opera di persuasione, con molta fermezza, riuscì nell’intento.
Fu sepolta in un sarcofago romano di marmo, collocato dietro la cancellata di ferro nella Chiesa di S. Lorenzo in Damaso; ma già il 2 dicembre 1373, i figli Birger e Caterina, partirono da Roma per Vadstena, portando con loro la cassa con il corpo, che fu sepolto nell’originario monastero svedese il 4 luglio 1374.
A Roma rimasero alcune reliquie, conservate tuttora nella Chiesa di San Lorenzo in Panisperna e dalle Clarisse di San Martino ai Monti.
La figlia Caterina e i suoi discepoli, curarono il suo culto e la causa di canonizzazione; Brigida di Svezia fu proclamata santa il 7 ottobre 1391, da papa Bonifacio IX.
Del suo misticismo rimangono le “Rivelazioni”, raccolte in otto volumi e uno supplementare, ad opera dei suoi discepoli. A questi scritti la Chiesa dà il valore che hanno le rivelazioni private; sono credibili per la santità della persona che le propone, tenendo sempre conto dei condizionamenti del tempo e della persona stessa.
Come tante spiritualità del tardo medioevo, Brigida ebbe il merito di mettere le verità della fede alla portata del popolo, con un linguaggio visivo che colpiva la fantasia, toccava il cuore e spingeva alla conversione; per questo le “Rivelazioni” ebbero il loro influsso per lungo tempo nella vita cristiana, non solo dei popoli scandinavi, ma anche dei latini.
Papa Giovanni Paolo II la proclamò compatrona d’Europa il 1° ottobre 1999; santa Brigida è inoltre patrona della Svezia dal 1° ottobre 1891.

Le Suore Brigidine
Il suo Ordine del SS. Salvatore, le cui religiose sono dette comunemente “Suore Brigidine”, ebbe per due secoli un grande influsso sulla vita religiosa dei Paesi Scandinavi e nel periodo di maggiore fioritura, contava 78 monasteri ‘doppi’, nonostante le rigide regole numeriche, diffusi particolarmente nei Paesi nordici. Declinò e fu sciolto prima con la Riforma Protestante luterana, poi con la Rivoluzione Francese; in Italia le due prime Case si ebbero a Firenze e a Roma.
L’antico Ordine è rifiorito nel ramo femminile, grazie alla Beata Maria Elisabetta Hesselblad (1870-1957), che ne fondò un nuovo ramo all’inizio del Novecento; ora è diffuso in vari luoghi d’Europa, fra cui Vadstena, primo Centro dell’Ordine; le Suore Brigidine si riconoscono per il tipico copricapo, due bande formano sul capo una croce, i cui bracci sono uniti da una fascia circolare e con cinque fiamme, una al centro e quattro sul bordo, che ricordano le piaghe di Cristo.


Autore:
Antonio Borrelli

Fonte: Santi e beati

Il Santo della gioia – Francesco d’Assisi

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1182 – 1226

La Sua Vita

Francesco nasce ad Assisi nell’inverno del 1182 da Pietro di Bernardone e Madonna Pica, una delle famiglie più agiate della città.
Il padre commerciava in spezie e stoffe. La nascita di Francesco lo coglie lontano da Assisi, mentre era in Provenza, occupato nella sua professione. La madre scelse il nome di Giovanni, nome che fu subito cambiato in Francesco quando tornò il padre. La fanciullezza trascorse serenamente in famiglia e Francesco potè studiare il latino, il volgare, il provenzale e la musica; le sue note insieme alle sue poesie, furono sempre apprezzate nelle feste della città. Il padre desiderava avviarlo al più presto all’attività del commercio. Un giorno era intento nel fondaco paterno a riassettare la merce quando alla porta si presentò un mendicante che chiedeva elemosina in nome di Dio. Dapprima Francesco lo scacciò in malo modo, ma poi pentitosi lo seguì e raggiuntolo vi si intrattenne, scusandosi ed elargendogli dei denari.

All’età di vent’anni partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia, e fu fatto prigioniero. La prigionia e gli stenti plasmarono l’animo del giovane e più il corpo si indeboliva, più cominciava a subentrare in lui il senso della carità e del bene verso gli altri.
Tornò a casa gravemente malato e solo le amorevoli cure della madre ed il tempo lo ristabilirono, ma la vita spensierata, che nel frattempo aveva riassunto, gli sembrò vuota.

Spinto da idee battagliere decise di seguire un condottiero nel sud Italia, ma giunto a Spoleto, ebbe un’apparizione del Signore, che gli ordinava di tornare indietro, fu questo l’inizio di una graduale conversione.

Durante una breve permanenza a Roma si spogliò dei suoi abiti e dei denari, più tardi in Assisi davanti ad un lebbroso non fuggì come facevano tutti, ma gli si avvicinò e lo baciò. Gli amici lo schernivano e deridevano, il padre manifestava apertamente la sua delusione, solo la madre lo confortava.

Francesco scelse il silenzio e la meditazione tra le campagne e le colline di Assisi, facendo spesso tappa nella Chiesetta di San Damiano nei pressi della città, e il crocifisso che era nella cappellina gli parlò: “Va, ripara la mia casa che cade in rovina”. Francesco vendette allora le stoffe della bottega paterna e portò i denari al sacerdote di San Damiano, ma l’ira di Pietro di Bernardone costrinse Francesco a nascondersi. La diatriba col padre fu risolta solo con l’intervento del Vescovo di Assisi, davanti al quale Francesco rinuncia a tutti i beni paterni.

Cominciò un periodo di spostamenti: di quel periodo è l’episodio del lupo di Gubbio, un animale che incuteva terrore e morte ammansito dalle parole del santo. Le gesta di Francesco non passarono inosservate e dopo qualche tempo, si affiancarono i primi seguaci: Bernardo da Quintavalle, Pietro Cattani, poco dopo Egidio e Filippo Longo.

Le prime esperienze con i compagni si ebbero nella piana di Assisi, nel Tugurio di Rivotorto e alla Porziuncola, tutti i compagni vestivano come Francesco di un saio e di stracci. La data ufficiale della nascita dell’Ordine dei Frati Minori è il 1210 quando Francesco ed i compagni vengono ricevuti dal papa Innocenzo III che verbalmente approva la Regola.

Il Papa, in sogno, ebbe la visione della Basilica Lateranense in rovina ed un uomo che la sorreggeva per evitarne la distruzione, quell’uomo era Francesco. Iniziano i contatti con Chiara d’Assisi e nasce così l’Ordine delle Povere Dame di San Damiano, chiamate Clarisse dopo la morte di Chiara.

Nel 1213 Francesco riceve dal Conte Orlando di Chiusi il Monte della Verna. Inizia la sua predicazione a più lungo raggio che lo spinge a recarsi in Marocco, ma una malattia lo ferma in Spagna.

Nel 1216 ottiene da Onorio III l’indulgenza della Porziuncola, Il Perdono di Assisi, la più importante della cristianità dopo quella di Terra Santa. Nel 1219 Francesco parte per Acri e Damietta al seguito della crociata e giunge in Egitto alla corte del sultano Melek el-Kamel, per poi raggiungere la Palestina. Nel frattempo l’Ordine ha i suoi primi martiri, uccisi in Marocco.

Nel 1220 Francesco torna ad Assisi dove i suoi ideali di povertà, di carità, di semplicità hanno fatto presa su molti, inizia così un nuovo ciclo di predicazioni in tutta Italia. A Fontecolombo, nei pressi di Rieti, redige una nuova Regola,approvata poi da Onorio III.

A Greccio, in dicembre, istituisce il Presepio, una tradizione cara alla cristianità. Nel 1224 sul Monte della Verna riceve le stimmate, il segno di Cristo e della santità. Francesco è stanco ed ammalato, il peregrinare per le predicazioni l’ha provato fuori misura, viene così curato a San Damiano, ospite di Chiara e delle Sorelle. Qui compone il “Cantico delle Creature” opera di alta religiosità e lirismo, che contiene tutti gli ideali dell’umiltà e della grandezza francescana. Sentendo prossima la fine terrena, Francesco si fa portare alla Porziuncola, in Santa Maria degli Angeli, dove muore al tramonto della giornata del 3 ottobre 1226.

Il 16 luglio di due anni dopo veniva dichiarato Santo dal papa Gregorio IX.

 

Sant’Antonio di Padova

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Fernando di Buglione nasce a Lisbona da nobile famiglia portoghese discendente dal crociato Goffredo di Buglione.
A quindici anni è novizio nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, poi si trasferisce nel monastero di Santa Croce di Coimbra, il maggior centro culturale del Portogallo appartenente all’Ordine dei Canonici regolari di Sant’Agostino, dove studia scienze e teologia con ottimi maestri, preparandosi all’ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, quando ha ventiquattro anni.

Quando sembrava dover percorrere la carriera del teologo e del filosofo, decide di lasciare l’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino. Fernando, infatti, non sopporta i maneggi politici tra i canonici regolari agostiniani e re Alfonso II, in cuor suo anela ad una vita religiosamente più severa.

Il suo desiderio si realizza allorché, nel 1220, giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d’Assisi.
Quando i frati del convento di monte Olivares arrivano per accogliere le spoglie dei martiri, Fernando confida loro la sua aspirazione di vivere nello spirito del Vangelo. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori e fa subito professione religiosa, mutando il nome in Antonio in onore dell’abate, eremita egiziano. Anelando al martirio, subito chiede ed ottiene di partire missionario in Marocco. È verso la fine del 1220 che s’imbarca su un veliero diretto in Africa, ma durante il viaggio è colpito da febbre malarica e costretto a letto. La malattia si protrae e in primavera i compagni lo convincono a rientrare in patria per curarsi.
Secondo altre versioni, Antonio non si fermò mai in Marocco: ammalatosi appena partito da Lisbona, la nave fu spinta da una tempesta direttamente a Messina, in Sicilia. Curato dai francescani della città, in due mesi guarisce.

A Pentecoste è invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Il ministro provinciale dell’ordine per l’Italia settentrionale gli propone di trasferirsi a Montepaolo, presso Forlì, dove serve un sacerdote che dica la messa per i sei frati residenti nell’eremo composto da una chiesolina, qualche cella e un orto.

Per circa un anno e mezzo vive in contemplazione e penitenza, svolgendo per desiderio personale le mansioni più umili, finché deve scendere con i confratelli in città, per assistere nella chiesa di San Mercuriale all’ordinazione di nuovi sacerdoti dell’ordine e dove predica alla presenza di una vasta platea composta anche dai notabili. Ad Antonio è assegnato il ruolo di predicatore e insegnante dallo stesso Francesco, che gli scrive una lettera raccomandandogli, però, di non perdere lo spirito della santa orazione e della devozione.

Comincia a predicare nella Romagna, prosegue nell’Italia settentrionale, usa la sua parola per combattere l’eresia (è chiamato anche il martello degli eretici), catara in Italia e albigese in Francia, dove arriverà nel 1225. Tra il 1223 e quest’ultima data pone le basi della scuola teologica francescana, insegnando nel convento bolognese di Santa Maria della Pugliola. Quando è in Francia, tra il 1225 e il 1227, assume un incarico di governo come custode di Limoges. Mentre si trova in visita ad Arles, si racconta gli sia apparso Francesco che aveva appena ricevuto le stigmate. Come custode partecipa nel 1227 al Capitolo generale di Assisi dove il nuovo ministro dell’Ordine, Francesco nel frattempo è morto, è Giovanni Parenti, quel provinciale di Spagna che lo accolse anni prima fra i Minori e che lo nomina provinciale dell’Italia settentrionale.

Antonio apre nuove case, visita i conventi per conoscere personalmente tutti i frati, controlla le Clarisse e il Terz’ordine, va a Firenze, finché fissa la residenza a Padova e in due mesi scrive i Sermoni domenicali. A Padova ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano grazie alla quale un debitore insolvente ma senza colpa, dopo aver ceduto tutti i beni non può essere anche incarcerato. Non solo, tiene testa ad Ezzelino da Romano, che era soprannominato il Feroce e che in un solo giorno fece massacrare undicimila padovani che gli erano ostili, perché liberi i capi guelfi incarcerati.

Intanto scrive i Sermoni per le feste dei Santi, i suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l’amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l’umiltà, la mortificazione e si scaglia contro l’orgoglio e la lussuria, l’avarizia e l’usura di cui è acerrimo nemico.

E’ mariologo, convinto assertore dell’assunzione della Vergine, su richiesta di papa Gregorio IX nel 1228 tiene le prediche della settimana di Quaresima e da questo papa è definito “arca del Testamento”. Si racconta che le prediche furono tenute davanti ad una folla cosmopolita e che ognuno lo sentì parlare nella propria lingua. Per tre anni viaggia senza risparmio, è stanco, soffre d’asma ed è gonfio per l’idropisia, torna a Padova e memorabili sono le sue prediche per la quaresima del 1231. Per riposarsi si ritira a Camposampiero, vicino Padova, dove il conte Tiso, che aveva regalato un eremo ai frati, gli fa allestire una stanzetta tra i rami di un grande albero di noce. Da qui Antonio predica, ma scende anche a confessare e la sera torna alla sua cella arborea. Una notte che si era recato a controllare come stesse Antonio, il conte Tiso è attirato da una grande luce che esce dal suo rifugio e assiste alla visita che Gesù Bambino fa al Santo.

A mezzogiorno del 13 giugno, era un venerdì, Antonio si sente mancare e prega i confratelli di portarlo a Padova, dove vuole morire. Caricato su un carro trainato da buoi, alla periferia della città le sue condizioni si aggravano al punto che si decide di ricoverarlo nel vicino convento dell’Arcella dove muore in serata. Si racconta che mentre stava per spirare ebbe la visione del Signore e che al momento della sua morte, nella città di Padova frotte di bambini presero a correre e a gridare che il Santo era morto.
Nei giorni seguenti la sua morte, si scatenano “guerre intestine” tra il convento dove era morto che voleva conservarne le spoglie e quello di Santa Maria Mater Domini, il suo convento, dove avrebbe voluto morire.

Durante la disputa si verificano persino disordini popolari, infine il padre provinciale decide che la salma sia portata a MaterDomini. Non appena il corpo giunge a destinazione iniziano i miracoli, alcuni documentati da testimoni.

Anche in vita Antonio aveva operato miracoli quali esorcismi, profezie, guarigioni, compreso il riattaccare una gamba, o un piede, recisa, fece ritrovare il cuore di un avaro in uno scrigno, ad una donna riattaccò i capelli che il marito geloso le aveva strappato, rese innocui cibi avvelenati, predicò ai pesci, costrinse una mula ad inginocchiarsi davanti all’Ostia, fu visto in più luoghi contemporaneamente, da qualcuno anche con Gesù Bambino in braccio. Poiché un marito accusava la moglie di adulterio, fece parlare il neonato “frutto del peccato” secondo l’uomo per testimoniare l’innocenza della donna. I suoi miracoli in vita e dopo la morte hanno ispirato molti artisti fra cui Tiziano e Donatello.
Antonio fu canonizzato l’anno seguente la sua morte dal papa Gregorio IX.
La grande Basilica a lui dedicata sorge vicino al convento di Santa Maria Mater Domini.

Trentadue anni dopo la sua morte, durante la traslazione delle sue spoglie, San Bonaventura da Bagnoregio trovò la lingua di Antonio incorrotta, ed è conservata nella cappella del Tesoro presso la basilica della città patavina di cui è patrono.

Nel 1946 Pio XII lo ha proclamato Dottore della Chiesa.

La pioggia di rose

Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo

Teresa Martin nasce ad Alençon in Francia il 2 gennaio 1873. È battezzata due giorni più tardi nella Chiesa di Notre-Dame, ricevendo i nomi di Maria Francesca Teresa. I suoi genitori sono Louis Martin e Zélie Guérin. Dopo la morte della madre, avvenuta il 28 agosto 1877, Teresa si trasferisce con tutta la famiglia nella città di Lisieux.

Verso la fine del 1879 si accosta per la prima volta al sacramento della penitenza. Nel giorno di Pentecoste del 1883 ha la singolare grazia della guarigione da una grave malattia, per l’intercessione di nostra Signora delle Vittorie. Educata dalle Benedettine di Lisieux, riceve la prima comunione l’8 maggio 1884, dopo una intensa preparazione, coronata da una singolare esperienza della grazia dell’unione intima con Cristo. Poche settimane più tardi, il 14 giugno dello stesso anno, riceve il sacramento della cresima, con viva consapevolezza di ciò che comporta il dono dello Spirito Santo nella personale partecipazione alla grazia della Pentecoste.

Desiderosa di abbracciare la vita contemplativa, come le sue sorelle Paolina e Maria nel Carmelo di Lisieux, ma impedita per la sua giovane età, durante un pellegrinaggio in Italia, dopo aver visitato la Santa Casa di Loreto e i luoghi della Città Eterna, nell’udienza concessa dal Papa ai fedeli della diocesi di Lisieux, il 20 novembre 1887, con filiale audacia chiede a Leone XIII di poter entrare nel Carmelo all’età di 15 anni.

Il 9 aprile del 1888 entra nel Carmelo di Lisieux ove il 10 gennaio dell’anno seguente riceve l’abito dell’Ordine della Vergine ed emette la sua professione religiosa l’8 settembre del 1890, festa della Natività della Vergine Maria.

Intraprende nel Carmelo il cammino della perfezione, tracciato dalla Madre Fondatrice, Teresa di Gesù, con autentico fervore e fedeltà, nell’adempimento dei diversi uffici comunitari a lei affidati. Illuminata dalla Parola di Dio, provata in modo particolare dalla malattia del suo amatissimo padre, Louis Martin, che muore il 29 luglio del 1894, si incammina verso la santità, ispirata dalla lettura del Vangelo, insistendo sulla centralità dell’amore. Teresa ci ha lasciato nei suoi manoscritti autobiografici non solo i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche il ritratto della sua anima e le sue esperienze più intime. Scopre e comunica alle novizie affidate alla sue cure la piccola via dell’infanzia spirituale; riceve come dono speciale di accompagnare con il sacrificio e la preghiera due « fratelli missionari». Penetra sempre di più nel mistero della Chiesa e, attirata dall’amore di Cristo, sente crescere in sé la vocazione apostolica e missionaria che la spinge a trascinare tutti con sé, incontro allo Sposo divino.

Il 9 giugno del 1895, nella festa della Santissima Trinità, si offre vittima di olocausto all’Amore misericordioso di Dio. Nel frattempo redige il primo manoscritto autobiografico, che consegna a Madre Agnese di Gesù nella sua festa, il 21 gennaio 1896.

Pochi mesi più tardi, il 3 aprile, durante la notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ha una prima manifestazione della malattia che la condurrà alla morte e che Lei accoglie come la misteriosa visita dello Sposo divino. Nello stesso tempo entra nella prova della fede che durerà fino alla sua morte e della quale offrirà una sconvolgente testimonianza nei suoi scritti. Durante il mese di settembre conclude il Manoscritto B, che costituisce una stupenda illustrazione della piena maturità della Santa, specialmente mediante la scoperta della sua vocazione nel cuore della Chiesa.

Mentre peggiora la sua salute e continua il tempo della prova, nel mese di giugno inizia il Manoscritto C, dedicato alla Madre Maria di Gonzaga; nuove grazie la conducono ad una più alta perfezione ed ella scopre nuove luci sull’estensione del suo messaggio nella Chiesa a vantaggio delle anime che seguiranno la sua via. L’8 luglio 1897 viene trasferita in infermeria. Le sue sorelle ed altre religiose raccolgono le sue parole, mentre i dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificano fino a culminare con la morte, nel pomeriggio del 30 settembre del 1897. «Io non muoio, entro nella vita», aveva scritto al suo fratello spirituale missionario don Bellier. Le sue ultime parole « Dio mio, io ti amo » sono il sigillo della sua esistenza, che all’età di 24 anni si spegne sulla terra per entrare, secondo il suo desiderio, in una nuova fase di presenza apostolica in favore delle anime, nella comunione dei Santi, per spargere una pioggia di rose sul mondo.

Fu canonizzata da Pio XI il 17 maggio 1925 e dallo stesso Papa proclamata Patrona universale delle missioni, insieme a San Francesco Saverio, il 14 dicembre 1927.

La sua dottrina ed il suo esempio di santità sono stati recepiti da ogni ceto di fedeli di questo secolo con un grande entusiasmo, anche fuori della Chiesa cattolica e del cristianesimo.

Molte Conferenze Episcopali in occasione del Centenario della sua morte hanno chiesto al Papa che fosse proclamata Dottore della Chiesa, per la solidità della sua sapienza spirituale, ispirata al Vangelo, per l’originalità delle sue intuizioni teologiche, nelle quali risplende la sua eminente dottrina, per l’universalità della recezione del suo messaggio spirituale accolto in tutto il mondo e diffuso con la traduzione delle sue opere in una cinquantina di lingue diverse.

Accogliendo questi desideri, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha voluto che fosse studiata la convenienza di dichiarare Teresa di Lisieux Dottore della Chiesa universale dalla competente Congregazione delle Cause dei Santi, con il voto della Congregazione per la Dottrina della Fede per quanto riguarda la sua eminente dottrina.

Il 24 agosto 1997, al momento della preghiera dell’« Angelus », alla presenza di centinaia di Vescovi e davanti ad una sterminata folla di giovani di tutto l’orbe, radunata a Parigi per la XII Giornata Mondiale della Gioventù, Giovanni Paolo II ha annunziato il suo proposito di proclamare Teresa di Gesù Bambino e del Santo Volto Dottore della Chiesa universale, il 19 ottobre 1997, nella Domenica in cui si celebra la Giornata Mondiale delle Missioni.

La Santa degli impossibili

Santa Rita

I suoi paesi nel 1400.

Roccaporena: un centinaio di abitanti in poche case grigi e, basse, serrate fra monti scoscesi, la cui ombra le copre per la maggior parte del giorno. Da una gola senza luce precipita un torrentaccio che non di rado diguazza negli orti e fra le case, e che si butta nel Corno, fiumicello or grigio or bianco fra alte file di pioppi. Sono contadini o pastori o taglialegna, ma i giovani sentono aria nuova e vanno a cercare altrove un pane più comodo, anche se, spesso, meno pulito. A Cascia vanno in groppa al muli per i sentieri del fondovalle, ma solo nella buona stagione, perché bisogna guadare molte volte il Corno stretto fra i greppi; oppure per sentieri che s’inerpicano fra i boschi per scorrere poi sull’altipiano.

Cascia: appartiene allo Stato Pontificio e non dista molto dal confine col Regno di Napoli. Digradante dalla cima di un colle, è tutta raccolta fra le Sue mura, nella fierezza delle sue memorie, e gode ancora una certa indipendenza, ma fino a poche decine d’anni prima era repubblica indipendente, dominava quaranta castelli e avevi il diritto di pace e di guerra. Ha sei Conventi di frati, cinque monasteri, tre collegiate di Canonici, due Vescovi, dei quali uno Agostiniano.

I suoi tempi. Stati e staterelli, principi e signorotti in continua guerre. Dappertutto un profondo rimescolìo di desideri di libertà, di riforma e dl novità. Ghibellini, guelfi, bianchi, neri, partigiani del Papa o dei Re stranieri o dei Principi di casa; e poi vassalli, mercenari, servi della gleba. Sete di dominio e di ricchezza. L’odio e le rivalltà dividono le città, i paesi, le famiglie, fin su nei villaggi e nei casolari. S’è persa come un vano canto di rosignuolo l’invocazione del Petrarca  “I’ vo gridando: Pace, pace, pace!..” Ma sui monti fioriscono anche romitori di pre-ghiera e di penitenza; nelle città e nei paesi pregano e lavorano monache e religiosi, predicatori infaticabili, riformatori santi. Il santo è di casa: parafulmine di ogni contrada, paciere di ogni contesa, salvatore della società. Umbria santa!

I suoi genitori. Antonio Mancini e Amata Ferri. Sono i  pacieri. del villaggio: la loro parola di pace riesce a comporre i dissidi tra le famiglie, riesce a smorzare le passioni partigiane fomentate dai contatti con le città. Lavorano un orticello intorno alla casa, un pezzo di terra sul pendìo del monte e curano un paio di caprette. Poca roba, molto amore e una lunga malinconia: dopo tanti anni di matrimonio nessuno che li chiami: papà, mamma.. Ogni giorno s’inginocchiano davanti alle immagini di S. Agostino, rinato alla madre dopo lunghi pianti, di S. Giovanni Battista e di S. Nicola da Tolentino, donati ai genitori molto avanti negli anni. Sulla faccia di Amata si moltiplicano le rughe e le mani di Antonio si fanno sem-pre più dure e più stanche. Ma anche sulla terra brulla, anche sulle rocce nascono i fiori. Anche nella casa di Antonio, Dio fa nascere un fiore: Rita. E’ l’anno 1381.

Il primo dono. Antonio e Amata lavorano nel campo. Nell’aria primaverile che addolcisce i prati, le api volano di primula in primula persuase dai nettare; volano nella boccuccia di Rita, il fiore più bello che sorride all’ombra d’un vecchio rovere. Germano, un falciatore che passa tamponandosi una larga ferita al braccio, non può sapere che quelle api bianche vivranno ancora, dopo cinque secoli, nei muri del monastero di S. Maria Maddalena. Le scaccia, chiama Antonio, poi grida spaventato: Miracolo!.. La ferita s’è improvvisamene chiusa. E’ il primo dono, e a un umile contadino.

Il primo incontro. La Comunione: il sole e il fiore, Gesù e l’anima: vicendevole offerta d’amore, veri sponsali che generano luminosi frutti di vita; la prima, unica, non interrotta offerta del cuore, dei dolori, dei sogni: sia fatta la tua volontà. La piccola Rita apre nel tetto della sua casa un pezzo di cielo dove i suoi occhi, e, più, il suo cuore trovano spazio e silenzio per pregare, per contemplare quelle immagini celesti di cui le parla, nelle sere d’inverno, il romito agostiniano che scende spesso dal suo romitorio montano per predicare l’amore e la pace. Dopo trent’anni Rita salirà lo ‘scoglio’, un’alta rupe scoscesa e solitaria fasciata di arbusti e di licheni a pochi passi dal villaggio, per non avere nessun ostacolo materiale alla sua preghiera, per un istintivo desiderio di solitudine e di silenzio.

Sia fatta la tua volontà. Come tutti i giovani, anche Rita custodisce nel cuore un sogno: il Chiostro. Non è paura dell’uomo, ma rinuncia all’amore dell’uomo per l’amore più grande. Non è insensibilità ai bisogni dei suoi vecchi genitori: la sua fede nella Provvidenza supera i calcoli della previdenza umana. Ma Dio vuole da lei il sacrificio. I giovanotti di Roccaporena pensano che una sposa migliore non è neppure immaginabile. Paolo di Ferdinando, un giovane focoso e violento, ma anche generoso come tutti gli impulsivi, sebbene abbia visto Rita scantonare quando ha tentato di fermarla per fare quattro chiacchiere, riesce a convincere con i suoi modi sbrigativi la titubanza di Antonio e Amata e a ottenere il  “si” di Rita. Guardando i fatti singoli, viene da chiedersi:  E la Provvidenza?, perché noi sappiamo appena un poco dell’ieri, pochissimo dell’oggi e nulla del domani. Chi ha fede e fiducia dona i suoi sospiri e i suoi timori a chi possiede in un unico pensiero l’ieri, l’oggi e il domani e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. (Manzoni). Matrimonio senza amore? Nel senso puramente umano, forse si; ma chi accetta la volontà di Dio nulla accoglie o sopporta senza amore: un amore più forte e più sicuro di qualunque sentimento istintivo o ispirato da motivi umani. Rita fidanzata, Rita alla cerirnonia nuzlale: il Sacramento suggella l’unione indissolubile.

Il suo sposo. Paolo di Ferdinando non è un uomo di casa, non ama la tranquillità del focolare domestico, non accetta le responsabilità di uomo sposato. Il temperamento focoso, le compagnie, le avventure partigiane gli impediscono di comprendere la moglie, inaspriscono le sue abitudini alla violenza e alla vendetta. In casa tutto lo irrita, tutto è mal fatto, ogni pretesto è sufficiente per rimbrottare e picchiare la moglie. Neppure la nascita di due figli riesce a cambiare durevol-mente la sua vita scapestrata. Ma che cosa è l’amore se non dono senza interesse? Che cosa è se non preghiera e azione benigna per chi si ama? Rita è martire dell’amore indissolubile il suo martirio è la salvezza dello sposo. Egli sente una sempre minor soddisfazione a sfogare la sua ira sulla moglie che non si ribella, che non si vendica, che piange, ma da sola, che insegna ai figli il rispetto e l’amore al padre, che tutti i giorni lo ama con la stessa tenacità. Ma una fredda sera d’inverno, aul sentiero che passa sotto la cupa torre di Collegiacone, dove dormono avvinazzati i mercenari, Paolo viene pugnalato. Rita, con l’aiuto di buone persone, riesce a portarsi sul pauroso luogo del delitto, accompagnata dai suoi figliuoli spaventati. Paolo è agonizzante e si spegne, con uno sguardo supplichevole, al fioco lume delle lanterne. La povera donna rimane sgomenta per l’indicibile dolore, moltiplicato dalla pietosa visione dei flgliuoli; ma è il dubbio della. salvezza eterna del marito che le porta il maggior lutto nel cuore: quante lacrime su quella croce! Quante penitenze, quante preghiere!

I suoi figli. Giangiacomo e Paolo Maria, due orfani col temperamento del padre: nelle loro pupille il sangue raggrumato dell’ucciso, già idolo dei loro sogni battaglieri. Nei loro cuore la più triste delle tentazioni: la vendetta. Essi si ribellano quando la mamma, nella preghiere della sera, aggiunge un’invocazione di perdono per gli assassini del loro padre. Svanisce nel loro cuore l’ideale dl bontà, di carità di perdono nel quale il ha cresciuti. L’amore è sacrificio dei propri affetti, è immedesimarsi in chi si ama; è sostituire chi si ama nei suoi bisogni spirituali: Rita offre a Dio i suoi figli, prima che l’istinto della vendetta armi le loro mani innocenti e il delitto perda le loro anime. Giangiacomo e Paolo Maria, colpiti da un morbo improvviso, si spengono serenamente riconquistati dall’amore materno.

Come Gesù. Il fiore dell’alpe dopo la tempesta: più lindo, più luminoso se ha resistito ai venti e alle acque. Così l’anima sotto la croce. Rita ha preso la sua e ha seguito Gesù: senza riposo, senza soddisfazioni. Come Gesù è rimasta nascosta nella sua umile casa pregando e lavorando; come Gesù ha detto:  Passi da me questo calice amaro, ma sia fatta la tua volontà; come Gesù ha perdonato agli uccisori del marito; come Gesù ha detto: che vale guadagnare anche tutto il mondo se si perde l’anima? Come Gesù ha sernpre fatto la volontà di Dio. Come Gesù va a pregare sul monte nel silen-zio e nella solitudine, più vicina ai cielo, mentre nella sua casa non è rimasto che l’inutile verso dell’assiuolo. In questo suo salire c’è il desiderio della luce, il desiderio di lasciare la mundana e trista foce. Nel vivo silenzio dei monti il vento porta la voce dei campanili di Cascia: è la stessa voce dei primi anni.

” Picchiate…” A Cascia prosperano cinque monasteri e Rita va umilmente a bussare al monastero di S. Maria Maddalena, delle Suore Agostiniane. Ma non c’è posto per le donne che portano il segno del mondo: il fiore toccato dall’uomo, il fiore che ha resistito alle bufere dell’alpe non può fiorire accanto ai vergini fiori dei giardini, dai petali freschi e profumati. Per tre volte la vedova va a bussare alla stessa porta, ma la regola è inflessibile. Perchè non si rivolge a un altro monastero? No, le api bianche sono volate dopo il paziente e lungo lavoro nei prati, alla quiete del monastero di S. Maria Maddalena, miracolose staffette di un’umile regina.

“… E vi sarà aperto”. Sullo scoglio spira un alito dl vento che muove la luna posata sul cespugli e ondula il lieve mormorio del torrente, di cui si scorge, qua e là nella valle, l’irrequieta lucentezza. Gli occhi di Rita, prima vividi nel trasporto della preghiera vocale, sono come spenti. Non vede più le cime chiarite dalla luna nè le poche stelle all’orizzonte. Tutto il panorama è mutato in una visione inte-riore: sfondo poetico al suo atto d’amore, così intenso da toglierle il senso del  peso fisico. In questa specie dl visione, la pallida luce lunare diventa luminosa e poi viva per la presenza di tre lucenti figure e per una voce soavissima: . Vieni, Rita…. Sono S. Giovanni Battista, S. Agostino, S. Nicola da Tolentino, i tre santi al quali Antonio e Amata avevano elevato le loro suppliche. E’ un attimo: tutto si concentra in una fiam-mella pallida e tremula che appena vince il buio intorno a sè, appena scopre il grigiore di una parete e un discreto profumo di fiori freschi. Le Suore al mattino trovano Rita nel coro, nella profonda letizia del ringraziamento. Gesù ha trapiantato il fiore delle tempesta nel suo giardino: in volo, come le api bianche.

Suora. Eccola a trentasei anni, vedova da poco più d’un anno, sola da pochi mesi, con le stigmate del dolore nel corpo e nell’anima, sposa esemplare, madre eroica, eccola a ricominciare: è novizia e deve ubbidire come e più delle sue giovani consorelle; sbriga i lavori più umili; soddisfa anche i più piccoli e strani ordini della superiora. Eccola inaffiare per lunghe settimane un pezzo di legno piantato disinvoltamente dalla superiora nel cortile. Tutte le suore possono vedere la loro consorella attingere l’acqua dal pozzo e versarla intorno allo sterpo. Ma che cosa è più facile a Dio: dare la forza a una giovane di sopportare la rottura dei suoi sogni, a una sposa di sopportare il marito incomprensivo e violento e di perdonare agli assassini di lui, a una madre di chiedere il sacrificio dei figli, o dar vita a un pezzo di legno inaffiato dall’ubbidienza e dall’umiltà di una suora? E Dio fa germogliare anche il pezzo di legno e una meravigliosa vite ornerà per secoli i vecchi muri di S. Maria Maddalena.

Il grande dono. L’amore è irresistibile come la morte; l’amore porta all’immedesimazione con chi si ama, col prossimo e con Dio. Dio amò tanto il mondo da mandare il Figlio suo Unigenito.. Rita ama tanto il prossimo da immedesimarsi in lui: nei suoi dolori e nei suoi bisogni. Ama tanto Gesù da desiderare la partecipazione alla sua Passione. La notte del giovedì santo del 1442, dopo aver ascoltato nella cattedrale di Cascia (allora non vigeva la clausura stretta) l’infuocata predica del P. Giacomo della Marca, mentre nel romitorio del Monastero è inginocchiata davanti all’immagine del Crocifisso, una spina le perfora violentemente la fronte. Dono d’amore, supplizio d’amore. La ferita giunge a suppurazione ed esala un continuo, nauseante fetore che costringe Rita alla solitudine di un dolore indicibile. Così per quindici anni, fino alla morte.

A Roma. Anno Santo 1450. L’anno di grazia chiama alla Città di Pietro innumerevoli schiere di cattolici da ogni parte del mondo. Anche le monache di Cascia, anche Rita. Ha 69 anni e solo un miracolo ha convinto la superiora a concederle il permesso di partire con le consorelle: la piaga è, superficialmente, scomparsa, e non apparirà che dopo il ritorno. ll viaggio é lungo; le monache si sfamano presso qualche casolare dell’Agro e camminano pregando e cantando per lunghe giornate, consolate dalla fede dei Magi. Roma: il Papa, i martiri, le basiliche, le catacombe: visioni che commuovono profondamente l’umile cuore di Rita; visioni della Gerusalemme terrestre preludio di quelle della Gerusalemme celeste. E poi ancora il misero giaciglio di Cascia, ancora mesi e anni nella solitudine, nel dolore continuo, progressivo per la ferita che i medici non sanno nè possono curare perché è ferita d’amore.

Ritorno a Roccaporena. Una mattina dell’ultimo inverno della sua vita, a una parente venuta a trovarla, Rita esprime il desiderio di avere una rosa e due fichi del suo orticello di Roccaporena. La povera donna riprende addolorata il sentiero, osservando melanconicamente la neve che copre quasi tutti i pendii e il fondovalle. Ma nell’orticello di Rita sopra la neve è fiorita una splendida rosa e dal gran fico pendono due grossi fioroni maturi. Desiderio di cose semplici, come frate Francesco:  Laudato si’, mi’ Signore per tucte tue creature.. Pace con tutto il passato: i dolori della sposa e della madre sono profumo e miele.

In patria. 22 maggio 1457, la morte serena, confortata da visioni celestiali; liberazione dal dolore, sublimazione dell’amore. Le campane suonano a festa, da sole, e tutto il popolo accorre per vedere e toccare il corpo della santa. Anche Cecco Barbari, un bravo falegname che aveva lavorato per il Monastero prima che una paralisi gli immobilizzasse un braccio. desidererebbe ardentemente di poter fare la cassa funebre, ma purtroppo… Anche il falegname Cecco Barbari, come il falciatore Germano, si trova improvvisamente guarito e potrà preparare non una ma due casse. Il tempo si è fermato davanti al corpo di S. Rita: da cinque secoli è incorrotto e non raramente emana un profumo soavissimo; talvolta, benedizione o ammonimento, si muove.

I suoi devoti. La Chiesa la dichiara Santa nel 1900, ma la devozione del popolo comincia dal 1457. Il notaio Domenico d’Angrio autenticò i primi undici miracoli ottenuti per l’intercessione di S. Rita dal 25 maggio al 18 giugno 1457 (Moretti). Nei secoli successivi la devozione a S. Rita si estese a tutta l’ltalia, all’Europa, alle Ame-riche. a tutto il mondo. Il popolo l’ha definita  la Santa degli impossibili. Leone XIII: la perla dell’Umbria. Quali sono i motivi dl questa univer-sale devozione per una santa di cinque secoli fa, di umilissime origini, analfabeta, lontana da ogni attività rumorosa, ignorata dalla storia e perfino dalle cronache dei suoi tempi? I miracoli, certamente, la splendida pioggia di rose; ma anche la sua vita, anzi le sue vite: di fanciulla, di sposa, di madre, di suora. Il suo modo di vivere la vita: compietamente, senza rimpianti, senza tenten-namenti, anche nelle ore più dure. Le sue sofferenze che hanno segnato tutti gli aspetti della sua vita. E’ la vicinanza al nostro vivere quotidiano, alle nostre croci tanto simili alle sue, al nostro misero andare tra il male fisico e morale, al nostro desiderio di purificazione. E’ il suo amore, l’atto ininterrotto che ha costruito la sua dolorosa scala di ascesa, che ha santificato e valorizzato tutte le sue azioni. S. Rita ha compreso quanto sia vero e bello ciò che ha detto il grande cuore di S. Agostino: Ama e fa’ ciò che vuoi. Ti doni la Provvidenza gioie o dolori, salute o malattia, ti conceda di raggiungere i tuoi sogni più belli o ti sbarri la strada con la vocazione alla sofferenza, ti accompagni a gente buona o cattiva, ti apra le porte alle grandi responsabilità o ti chiuda in un umile, insignificante lavoro, ama, e tutto diventerà luminoso e santo, per te e per il tuo prossimo.

 

Una ragazza di buona famiglia

Santa Gemma Galgani

Le origini

Gemma è nata martedì, 12 marzo 1878 (alle ore diciotto e trenta), dal dottor Enrico Galgani e da Aurelia Landi, quinta di otto figli, nella frazione di Borgo Nuovo, comune di Capànnori, parrocchia di Camiglìano, diocesi di Lucca. Questa la scheda anagrafica redatta nei suoi primi dettagli burocratici.

C’è da aggiungere che il giorno seguente la neonata viene battezzata da don Pietro Quilici, parroco di San Michele a Camigliano, e riceve i nomi di Gemma, Umberta, Pia. Della piccola, don Olivo Dinelli, parroco di Gragnano, ebbe a dire: «Le gemme sono in paradiso. Speriamo che anche questa bambina sia una Gemma di paradiso».

Ma Gemma resta pochissimo a Camigliano, che oggi porta anche il suo nome. Nell’aprile successivo, infatti, la famiglia Galgani si trasferisce a Lucca (via de’ Borghi), perché i bambini abbiano una adeguata educazione. Enrico Galgani esercitava la professione di farmacista.

All’età di due anni Gemma comincia a frequentare l’asiloscuola delle sorelle Vallini, in piazza San Francesco.

«Fui costretta a rispondere di sì»

Il 26 maggio 1885, nella chiesa di San Michele in Foro, monsignor Nicola Ghilardi, arcivescovo di Lucca, somministra a Gemma la cresima. Durante la messa, « a un tratto », racconterà più tardi Gemma, «una voce al cuore mi disse: “Mi vuoi dare a me la mamma? Me la dai volentieri?”. Fui costretta a rispondere di sì ». Mamma Aurelia morirà nel settembre dell’anno successivo. La piccola Gemma entra precocemente nella scuola del dolore.

Nel 1887, il 17 giugno, festa del Sacro Cuore, Gemma si accosta per la prima volta alla mensa eucaristica, nella cappella delle Oblate dello Spirito Santo. Si era preparata a questo importante appuntamento con un lungo ritiro presso le stesse suore chiamate anche Zitine. è profondamente colpita dal racconto della Passione di Gesù, fattole da suor Camilla Vagliensi. Il suo confessore è monsignor Giovanni Volpi, che dal 1897 sarà vescovo ausiliare di Lucca.

A scuola

Dal 1889 al 1893 Gemma frequenta regolarmente la scuola delle Zitine. Fra le altre, ha per maestra la beata Elena Guerra, fondatrice dello stesso istituto religioso. Interrotti per motivi di salute gli studi formali, nei quali riusciva egregiamente, frequenta le scuole notturne della dottrina cristiana, conseguendo un anno la medaglia d’argento e l’anno successivo il diploma e la medaglia d’oro (madrina la contessa Guinigi).

La prova del dolore

Un altro grande dolore fu per la giovane la morte del fratello Gìno, seminarista, avvenuta nel 1894, ad appena diciotto anni. La famiglia, l’anno precedente, si era trasferita in via Streghi 6. Gemma soffre acutamente per la morte del fratello. Tra il ’95 e il ’97 altro trasloco: la famiglia si trasferisce in via San Giorgio 10.

Durante il 1895 e l’anno seguente, Gemma riceve varie ispirazioni a seguire con più impegno e decisione la via della croce, itinerario di ogni autentico discepolo di Cristo. «In me», scriverà nell’Autobiografia, «sentivo crescere una brama di amare tanto Gesù crocifisso, e insieme a questo una brama di patire e aiutare Gesù nei suoi dolori».

Per la prima volta le appare un angelo, che in seguito riconosce come il suo angelo custode: le ricorda quali sono i veri monili «che abbellano una sposa di un Re crocifisso», ossia le spine e la croce.

Nel 1896, per una incidentale carie ossea, Gemma subisce una grave operazione al piede, affrontata per necessità senza anestesia. Il coraggio dimostrato dalla ragazza in questa occasione stupisce i chirurghi.

Collabora all’asilo tenuto dalle sorelle Baccheretti (tra piazza Scalpellini e corte Compagni). Nel Natale di quest’anno, consultato monsignor Volpi, fa il voto di castità.

Nel 1897 (11 novembre) muore, ad appena cinquantasette anni, per tumore alla gola, il dottor Enrico Galgani. Lascia la famiglia in un gravissimo frangente finanziario. Gemma prova che cosa siano la miseria e l’emarginazione sociale. Abitava ancora in via San Giorgio. Sia la farmacia paterna sia la casa vengono poste sotto sequestro. I creditori sequestrano tutto di casa Galgani. «Mi misero le mani in tasca», confidò Gemma a Cecilia Giannini anni dopo, « e mi levarono quei cinque o sei soldi che avevo ».

Anche per aiutare la famiglia, lavora nella scuola di taglio delle signorine Sbaraglia, in via Nuova. Il 12 novembre viene accolta a Camaiore dalla zia paterna, Carolina Galgani, che insieme con il marito Domenico Lencioni gestiva un negozio di mercerie, e dà una mano in negozio.

« Tutta di Gesù »

Siamo nel 1898. Gemma ha vent’anni. Viene chiesta in sposa da diversi giovani. Rifiuta perfino l’idea, perché sente di essere «tutta di Gesù». Per questo, per eludere qualsiasi richiesta, da Camaiore ritorna a Lucca, nonostante i gravi disagi familiari. Abita in via del Biscione 13 (l’attuale via Santa Gemma Galgani). L’8 dicembre dello stesso anno fa il voto di verginità. Sente sempre più forte la vocazione alla vita religiosa claustrale. Ai familiari risponde decisa: «Voglio essere tutta di Gesù».

La malattia

Nell’inverno 1898 – 1899 la giovane si ammala di osteite alle vertebre lombari e di otite mastoidea. Riceve il viatico, ma le appare san Gabriele dell’Addolorata, passionista, che la chiama con affetto «sorella mia! ». Ispirata dal giovane santo passionista non ancora canonizzato, invoca la beata Margherita Maria Alacoque e il 2 marzo, vigilia del primo venerdì del mese, guarisce istantaneamente. In aprile, contemplando il Crocifisso, vuole «patire qualcosa per lui, vedendo che aveva patito tanto per me». Nel maggio resta qualche settimana nel monastero delle Visitandine. Ma non vi viene accolta.

Seguono mesi di profonda vita mistica. L’8 giugno 1899 (è l’ottava del Corpus Domini e vigilia della festa del Sacro Cuore) riceve la «grandissima grazia» delle stimmate, in via del Biscione. L’arcano fenomeno si ripeterà periodicamente ogni giovedì dalle ore venti fino alle quindici del venerdì successivo. Le stimmate si manifesteranno quasi tutti i giorni negli anni 19011903, sia di giorno che di notte. Gemma pensa seriamente a entrare in una comunità religiosa, ma le difficoltà sono enormi. Deve abbandonare definitivamente il progetto di adesione alla comunità delle Visitandine di Lucca.

La missione popolare per l’Anno Santo 1900

Nel 1899, fine giugno primi di luglio, Gemma conosce per la prima volta i missionari passionisti al termine della missione popolare predicata con grande frutto in San Martino in preparazione alla celebrazione dell’Anno Santo 1900. In realtà, le erano già noti per celeste cognizione tramite le apparizioni di san Gabriele dell’Addolorata. «Un’affezione speciale mi prese per essi», scriverà nell’Autobiografia. Durante la messa di chiusura della missione sente dirsi ìnteriormente: «Tu sarai una figlia della mia Passione, e una figlia prediletta». Comincia così quel legame con i Passionisti e la loro spiritualità che non sarà più troncato. Pur restando fedele laica, fa i voti privati di castità, povertà, obbedienza e il voto di promuovere la grata memoria della Passione di Gesù, secondo la spiritualità passionista.

In casa Giannini

Sempre in occasione della missione per l’Anno Santo, Gemma conosce la signora Cecilia, sorella del cavalier Matteo Giannini, farmacista, grande amico e benefattore dei Passionisti del ritiro de «L’Angelo» di Ponte a Moriano (Lucca). Viene invitata in casa Giannini in via del Seminario. L’invito, conosciute le precarie condizioni della famiglia Galgani e la singolarità di vita della giovane, si cambia ben presto in generosa ospitalità.

Si stabilisce così una profonda amicizia spirituale tra Gemma, zia Cecilia, Eufemia (nipote di Cecilia) e i Passionisti. Il suo confessore è molto dubbioso sui fenomeni mistici straordinari della giovane. Suggestionato da qualche persona a lui vicina, dopo una frettolosa visita medica, mentre la giovane riviveva i dolori della Passione, si conferma nei suoi dubbi a questo riguardo e riguardo alla vera vocazione della santa (il chiostro passionista da fondare in Lucca).

Padre Germano Ruoppolo

In casa Giannini, Gemma sente parlare di padre Germano Ruoppolo, amico di famiglia, residente a Roma. A questo insigne Passionista viene indirizzata anche da monsignor Volpi. Padre Germano la seguirà nelle vie dello spirito, con grande saggezza e discernimento. Tra la giovane e padre Germano si svilupperà un fitto epistolario, in gran parte conservatoci, fonte primaria, insieme con i colloqui estatici, per la conoscenza della spiritualità della santa lucchese. Per volere di padre Germano, Gemma scriverà anche l’Autobiografia (composta tra il febbraio e il maggio del 1901), continuazione del Diario (lugliosettembre del 1900), redatto per ordine di monsignor Volpi.

Le estasi, i colloqui mistici e i fenomeni cristopatici si susseguono con frequenza impressionante. Il giudizio su questi ultimi non è unanime da parte di chi conosce i segreti della giovane mistica. Preoccupazione costante di padre Germano era che «Gemma doveva essere nascosta a Gemma», ossia la giovane doveva vivere con serenità la chiamata mistica straordinaria, senza il continuo assillo del dubbio e del rischio della menzogna, seppure involontaria. Sorgono gravi divergenze di giudizio tra monsignor Volpi e padre Germano che dilacerano lo spirito della giovane stimmatizzata. Gemma, inoltre, patisce impressionanti vessazioni diaboliche.

La missione speciale affidata a Gemma

Nell’ottobre del 1901 Gemma si offre vittima al Signore per una missione speciale di riparazione al Sacro Cuore di Gesù. Anche papa Leone XIII doveva essere interessato perché richiamasse tutta la Chiesa all’urgenza della riparazione dei peccati, alla conversione dei peccatori, alla santificazione del clero e dei consacrati. Nel 1902 Gemma rinnova la sua offerta al Signore per la salvezza dei peccatori. Moltiplica anche le richieste per poter entrare nel monastero di clausura delle Passioniste di Tarquinia, l’unico allora esistente in Italia. Richieste più volte reiterate perché espressione di precise indicazioni mistiche da parte del Signore, della Vergine, di san Gabriele dell’Addolorata. Non viene ricevuta in monastero per la scarsa salute e per cattive informazioni ricevute da persone non proprio benevole sulla causa dei suoi fenomeni mistici straordinari. A poco a poco Gemma comprenderà che la rinunzia forzata alla vita claustrale faceva parte di un misterioso progetto di fecondità apostolica oltre la morte.

Si adopererà, già gravemente inferma, per far erigere in Lucca un monastero di claustrali passioniste per rispondere agli appelli del Sacro Cuore di Gesù. Appelli che resteranno purtroppo inascoltati finché sarà lei in vita. La fondazione del monastero passionista sarà decisa (2 ottobre 1903) da papa Pio X solo alcuni mesi dopo la morte di Gemma. Le prime monache passioniste arriveranno il 16 marzo 1905.

«Di’ a Gesù che mi usi misericordia»

Nel maggio del 1902 Gemma si ammala, poi si riprende (9 settembre). Si aggrava di nuovo il 21 ottobre (la sorella Giulia muore il 19 agosto; il fratello Tonino si spegne il 21 ottobre dello stesso anno). Il 24 gennaio 1903, per ordine dei medici, la famiglia Giannini deve trasferire Gemma in un appartamento in via della Rosa 17, affittato dalla zia Elisa Galgani. La santa vive l’esperienza dell’abbandono di Gesù in croce e del silenzio di Dio. è fortemente vessata dal demonio, ma non smarrisce mai la fede, non perde mai la pazienza ed è sempre piena di amore e di riconoscenza verso chi la assiste nell’ultima malattia. Sperimenta fino in fondo, nella sua carne, l’abbandono di Gesù sulla croce per il bene della Chiesa.

L’assenza forzata di padre Germano negli ultimi giorni di agonia e le troppo rapide visite di monsignor Volpi accentuano l’ultima desolazione dello spirito. Ma anche la loro presenza non avrebbe certo distolto Gemma dalla suprema conformazione all’abbandono in Gesù «solo solo».

La Pasqua eterna

L’11 aprile del 1903, alle ore tredici e quarantacinque, Gemma si addormenta nel bacio del Signore, assistita amorevolmente dai Giannini, da due religiose della Barbantini e dal francescano padre Giuseppe Angeli; è presente la zia Elisa. Gemma si è incontrata, nella suprema povertà della morte, con lo Sposo crocifisso risorto. Quell’11 aprile era Sabato santo. Come usava allora, da un’ora e tre quarti le campane di Lucca e del mondo avevano annunziato la risurrezione del Signore.

Nei giorni precedenti non avevano mancato di visitarla il canonico don Stefano Antoni, don Roberto Andreuccetti (corettore della Rosa), don Luigi Carnìcelli (vicecurato di Santa Maria Bianca), che le avevano anche amministrato il sacramento degli infermi e il viatico. Padre Germano potrà giungere a Lucca solo quindici giorni dopo la morte di Gemma.

Il giorno di Pasqua, 12 aprile 1903, Gemma viene sepolta nel cimitero di Lucca in una tomba privilegiata a cielo aperto. Sul piccolo monumento fatto costruire da padre Germano campeggiano un angioletto e una scritta nella quale si legge, fra l’altro: «Te in pace cum angelis» («Riposa in pace insieme con gli angeli»).

Dieci anni dopo, sarà compiuta la prima traslazione nell’ambito dello stesso cimitero. Il 4 settembre 1923 si effettuerà la seconda traslazione nell’oratorio del monastero passionista di Fuori Porta Elisa (attuale via di Tiglio 271).

«La povera Gemma» nella gloria

Quattro anni dopo la morte di Gemma, padre Germano pubblicherà la sua prima biografia, ricca esposizione della breve ma intensissima vita della giovane lucchese; testimonianza unica di chi tanto da vicino ne aveva seguito i progressi spirituali. La biografia ebbe rapida diffusione e ampi consensi. Nel 1909 furono pubblicate le Lettere e i colloqui estatici (registrati a insaputa della santa).

Due anni prima si erano aperti a Lucca i processi canonici per il riconoscimento della santità eroica di Gemma, che saranno continuati a Pisa negli anni successivi. La consueta severità degli esami sulla santità in grado eroico sarà ancora più accentuata dal serrato dibattito cui verranno sottoposti i numerosi fenomeni mistici straordinari della giovane lucchese. Esamineranno il caso, fra gli altri, il cardinal Ildefonso Schuster, padre Marco Sales, padre Luigi Besi, monsìgnor G. Antonelli. La risposta sarà positiva.

Dopo aver esaminato a lungo e di persona la «causa» di Gemma Galgani, Pio XI annovera la stimmatizzata lucchese nell’elenco dei beati (14 maggio 1933). L’8 settembre dello stesso anno l’urna della nuova beata viene trasportata trionfalmente nel duomo di San Martino, dove, umile e sconosciuta, Gemma aveva tante volte pregato ai piedi del Volto Santo.

Nel settembre del 1935 si ha la posa della prima pietra del monastero santuario. I lavori si concluderanno nel 1953 con la consacrazione dell’altare e la benedizione della nuova urna, opera superba di Francesco Nagni, contenente i resti mortali della beata.

Il 2 maggio del 1940 papa Pio XII l’inserisce «la povera Gemma» nell’elenco dei santi e le affida il proprio pontificato e la sorte dei popoli e delle nazioni per l’immane conflitto mondiale che si era aperto già da diversi mesi.

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